sabato 17 dicembre 2011

Panic

«Freeze!»
Gli altri lo guardarono, armi puntate e indici pronti a premere. Troppe serie tv americane gli avevano standardizzato il linguaggio: arrossì sotto l’elmetto.
«Nessuno si muova!»
Fecero irruzione in una stanza vuota. Con la mano libera dall’arma diede istruzioni ai suoi: tu là, tu là, voi due copriteci.
«Comandante…»
Si voltò verso il militare che lo aveva chiamato sottovoce. Lo vide indicare col mento una porta aperta.
Nel cesso, appollaiato davanti allo specchio, c’era uno spettacolo raccapricciante: Giovanni Allevi nudo.

mercoledì 14 dicembre 2011

Strage di Firenze, senegalesi, italiani.

C'è questo video, che gira su Facebook, nel giorno della "strage di Firenze". Tantissimi miei contatti lo stanno condividendo. Si intitola così: "Discorso di un senegalese umilia la stupidità di certi italiani". Be', ho cliccato play, naturalmente, e l'ho guardato. Così adesso vi posso dire che se cliccate play pure voi vedrete un negro dire delle banalità sconcertanti e ovvie, che il peggior Veltroni potrebbe produrre sbadigliando durante qualsiasi puntata di Annozero. Solo che. Solo che. Solo che è negro. È negro e parla benissimo italiano. Indovina pure tutti i congiuntivi. È un bell'uomo. Non so se mi state seguendo. Tantissimi miei contatti stanno condividendo un video in cui un tizio dice cose inutili e retoriche che diventano all'improvviso critiche e intelligenti solo perché è negro. Il che fa il paio coi video dei cani che ridono, delle scimmie che sanno saltare dentro un cerchio e dei gibboni che fumano una sigaretta: è la peggior forma di razzismo possibile, quella sotterranea, quella che agisce per inerzia, come schiuma viscosa che scivola lungo un canale fognario. A me sembra che voi stiate urlando come banditori da circo: guardate! Guardate! C'è un negro che non si limita a rubare! Venghino siori, venghino! Nemmeno vi interessa quello che dice. Il vostro è stupore: stupore perché un negro - che evidentemente ritenete dovrebbe limitarsi a grufolare - PARLA. È davvero lunga, lunghissima, la strada che porta al domani. Se non altro perché è affollata di depensanti e si fa fatica a passare.

Dalla Fiera del Libro di Roma, mi riporto uno Sciamano.

Lucian Dan Teodorovici ha scritto un piccolo capolavoro. Si chiama “Un altro giro, Sciamano” (Aìsara Edizioni, traduzione di Ileana M. Pop) e adesso voi uscite e andate a comprarlo.

Fine della "recensione".
Possiamo fare due chiacchiere.

Questo Teodorovici, che io ho avuto l’onore di conoscere durante lo scorso Salone Internazionale del Libro di Torino, è un grosso letterato romeno (grosso anche nel senso della stazza), riconosciuto in patria come uno tra i più interessanti scrittori contemporanei (ho scoperto che il suo ultimo libro, ancora inedito da noi, è stato salutato dalla stampa nazionale come “il miglior romanzo degli ultimi vent’anni”: minchia): qui in Italia è pubblicato da Aìsara, casa editrice di cui
ho già avuto modo di parlare relativamente a “Zagreb”, di Arturo Robertazzi: di Teodorovici ho letto anche “La casta dei suicidi”, che pure è molto interessante, ma è con questo “Un altro giro, sciamano” che mi sono veramente deciso a scriverne, perché quello che penso adesso, che l’ho appena finito di leggere, è che tutti voi dovreste fare lo stesso.

Questo romanzo parla di un tizio. Nient’altro.
Sua è la voce narrante, suo è il punto di vista. Ne facciamo la conoscenza tra i tavoli di un bar, mentre Leonard Cohen canta a ripetizione “Dance me to the end of love” e, insieme a lui, non si sa bene il perché, ne ripercorriamo improvvisamente la vita, la vita, quella cosa lì che succede tra le due famose estremità dello spettro organico dell’esistenza. Ogni capitolo sembra un racconto breve quasi quasi autosufficiente: un uso delle analessi e delle prolessi che farebbe venire voglia pure a Quentin Tarantino di battergli il cinque, a Teodorovici, una capacità scientifica sbalorditiva di non perdere mai il filo e di tenere a bada la concentrazione del lettore, personaggi originalissimi e dialoghi istericamente realistici, uno strano e, secondo me, nuovo minimalismo, che non toglie, non decostruisce ma, tutto al contrario, arricchisce, va a pescare in una pozza dove già sguazzò un certo Raymond Carver, superandolo col progresso letterario di questi ultimi quarant’anni, correggendolo, addirittura, migliorandolo, mi perdoneranno i puristi del grande scrittore americano. Ecco cosa succede in questo romanzo di Teodorovici, mentre il protagonista ci racconta chi è e, soprattutto, perché, dopo un paio di bicchieri di troppo, si ritrova fuori di quel bar, al freddo, col suo migliore amico, convinto che “da allora in poi la mia vita sarebbe cambiata completamente”.

Sentite (vi ricordate? La recensione è finita dopo cinque righe, noi qui stiamo chiacchierando), è capitato a tutti. Alla maggior parte: di bere troppo, una sera, e di sentirsi improvvisamente calati in una realtà alcolica piena di dettagli, piena di (false) speranze, piena di incredibili aspettative. A suon di Negroni, ormai qualcosa come sette anni fa, decisi insieme ad altri due amici di fare una vacanza pazzesca che, da sobri, non avremmo mai avuto nemmeno l'ardire di progettare. Da ubriachi troviamo il coraggio di dare baci e di dire cose e di lasciare parcheggiata la macchina laddove in condizioni normali non avremmo nemmeno pensato di posare il pensiero: ecco perché, ormai completamente andato, l’amico del protagonista, onorevolissimo compagno di bevute, gli dice a un certo punto: “Senti, sciamano, da questo momento basta, la nostra vita cambia. Te lo dico io, cambia proprio di brutto. Basta!”.

Così comincia il libro, con queste due persone che parlano, ubriachissime. Succedono un po’ di cose in questo bar, non tantissime ma abbastanza per farci desiderare (io l’ho desiderato) che Teodorovici non ci faccia mai più uscire da lì dentro. Invece giri pagina e Teodorovici, secondo un criterio bastardissimo che dovrebbe essere proprio di tutti gli scrittori bravi, non solo ti ci fa uscire, ma non ti ci farà mai più rientrare, sballonzolandoti per tutta la lunghezza della storia qua e là nel tempo e nello spazio, risalendo la spina dorsale di quest’uomo, di cui niente sapevamo prima e niente sapremo dopo ma che, nel frattempo, avremo imparato ad amare (e vi assicuro che prima della fine delle pagine avremo anche imparato a dare un nome e un perché a tutto quell‘alcol che stavano bevendo all’inizio, perché in effetti è di questo che parla questo libro, e cioè del perché due uomini relativamente giovani e relativamente affermati dovrebbero desiderare di distruggersi di alcol e di cambiare le proprie vite).

C’è un non so che di Carveriano, dicevo, solo che manca l’America. Manca completamente. La storia è molto precisamente localizzata: succede tutto in Romania, ci sono i nomi dei paesi, ci sono le caratteristiche geografiche di tutti i luoghi e, soprattutto, ci sono le abitudini, il folklore, le tipologie umane, i mestieri: “Un altro giro, sciamano” è anche un’interessantissima carrellata su questa straordinaria cultura.

Nel capitolo numero due si parla di trampoli e di feste paesane, nel capitolo tre all’improvviso siamo in vacanza e si parla di snorkeling, di mute in neoprene e di gelosia (pagine di un erotismo sotterraneo pazzesco), nel capitolo quattro si parla di giornalismo, di carte segrete, di “carnat” e di “caltabos”, nel capitolo cinque si parla di un bambino-lupo e, di nuovo, di gelosia, tutto all’interno di una camera d’albergo, nel capitolo numero sei la storia vira verso i toni del tradimento e si parla del potere della verità, nel capitolo sette si parla di zingari e di oche, di cultura gitana, di crescita e di violenza, nel capitolo otto siamo in un camion e si parla di trasporti, traffico e di aria fritta, fino a quando - proprio un attimo prima che tu-lettore ti domanderai quale caspita sia il punto - l’autore ci riporta al centro preciso degli eventi con un colpo di quelli che ogni tanto fa Federer sotto le gambe che tutti si alzano e urlano e si guardano annuendo e le signore si aggiustano la tracolla della borsa sulla spalla che è scesa per il troppo applaudire, nel capitolo nove (forse il più “carveriano” di tutti) c’è una grande gita e già da qui diventa più chiaro come Teodorovici ci stia spingendo (anche simbolicamente) verso la riva, riprendendo, mano a mano che ci si avvicina alla conclusione, tutti gli elementi disseminati nell’arco della narrazione, disponendoli su un tavolo come se il grosso del puzzle fosse già risolto e si trattasse ormai soltanto di piazzare i pezzi perimetrali, nel capitolo numero dieci c’è un tram che canta e tante, tante botte, nell’ultimo capitolo, infine, anche questo sufficientemente carveriano da ricordare in qualche modo il capolavoro “Cattedrale”, alcune persone stanno in una casa, tra cui il protagonista, naturalmente, che finora non ci ha mai abbandonato, ma anche quell’altro tizio, quello che all’inizio, in quel bar con Leonard Cohen, si diceva convinto che la loro vita sarebbe cambiata, eccetera eccetera, e va a finire che si nomina un documentario su un incidente ferroviario che vi giuro vi farà sentire una specie di rumore, come di una zip che si chiude, perché quello sarà il costume di scena che si sigillerà definitivamente intorno al corpo dell’attore, facendone perdere per sempre le sembianze umane: ta-dan, vi dirà a quel punto Teodorovici, ecco qua l’effetto speciale completato, ecco perché io sono lo scrittore e voi siete i lettori, ecco perché questa storia adesso è veramente completa. Ecco perché questo libro è un vero libro.

Un piccolo capolavoro, sul serio.
Una prova magistrale di costruzione di una trama e di solidità generale della struttura. Il tutto calato in uno scenario originale e fascinoso che non ha nulla del realismo della provincia americana a cui una letteratura simile ci aveva abituato.

Tante chiacchiere per tornare all’inizio: Lucian Dan Teodorovici ha scritto una cosa bellissima: a me è venuta voglia di essere il protagonista della sua opera. Di vivere nel suo piccolo mondo. Siate anche voi, per un po' di tempo, qualche altra cosa. Questo autore è formidabile a centrare l'impresa letteraria più bella di tutte: mettervi addosso un travestimento senza che ve ne possiate accorgere. Ritrovarsi all'improvviso con le brache alle ginocchia in mezzo alla strada: ecco che cosa dovrebbe fare sempre la letteratura ed ecco che cosa fa sicuramente in questo caso "Un altro giro, sciamano".

lunedì 7 novembre 2011

Qualcosa a proposito dei libri.

I libri mi sconfiggono, ma non è colpa dei libri: non lo so, è qualcosa che ha a che fare col possesso. Nutro per i libri un fascino che è soprattutto anti-feticista, nel senso che non amo nessuna loro parte, in sé, pagine, copertina, profumo, colori, trama o contenuto: ciò che più mi affascina è quello che non riesco ad afferrare, la parte trascendente dei libri, non so se mi spiego. Stento a tenere lontane le mani dal nuovo romanzo di Jeffrey Eugenides: lo devo toccare, lo devo sfogliare, ma perfino sapere che lo posso comprare, possedere, non mi soddisfa, non mi rende felice, perché una cosa come un libro io non la potrò mai Avere Veramente. Non è questione di leggerlo o di capirlo: non è questione di analisi logica. E' un amplesso che non conosce fase refrattaria: in altre parole, un inferno. I volumi Adelphi, che si stagliano coloratissimi sugli scaffali, mi sconfiggono nell'amore viscerale che provo per loro, perché ogni volta che ne tiro fuori uno, dal buco nella pila mi soffia in faccia una specie di vento siderale che mi rimpicciolisce: hanno un numero sul dorsalino, cifre che possono salire tantissimo, arrivare a più di un migliaio e io, invece, che sono sempre uno, uno, uno, come potrò mai dominarli? Non certo leggendoli, perché arriverò, un giorno, al numero 1456 avendo dimenticato il numero tredici. Non è colpa di nessuno, ecco l'ultima questione frustrante: non ci sono responsabilità da attribuire. E' come quando stai tanti anni fidanzato con una ragazza che lavora in piscina e per un sacco di altro tempo, ben oltre la fine del rapporto, l'odore di cloro ti lascia sull'anima un solco come di coltello ogni volta che lo senti per caso. Non è colpa del cloro e non è colpa della piscina: è solo una cosa che succede e che è semplicemente irrisolvibile. I libri, come ogni altra cosa bella, per dirla con Paul Valery, fanno disperare.

Limortaccivostra.

Il mio LIMORTACCIVOSTRA deve risalire le tubature e gli scarichi e vomitarvi in faccia fango e liquami mentre state martellando intorno ai sanitari; deve piegare i denti delle vostre seghe e allentare le teste dei vostri martelli, proiettandone l'estremità pesante in aria fino al centro esatto delle vostre scatole craniche; deve rendere più resistenti le pareti che state cercando di abbattere alle ore otto e venti del mattino, innescando così una frustrazione doppia della mia che invece sto cercando di dormire, una frustrazione tale che vi distrarrà solennemente inducendovi a perdere dalle tasche la paga in nero ricevuta dai vostri datori di lavoro, una coppietta fresca di matrimonio che ancora non ne sa niente di corna e avvocati divorzisti ma che presto saprà; deve bloccare sui binari i vostri treni che vi riporteranno alle vostre unità abitative - dislocate in nonluoghi proletari come Cisterna di Latina, Guidonia, Pignataro Interamna - con ritardi tali da insospettire le vostre mogli dell'est grasse e sciupate con le quali intratterrete rilassantissimi litigi fino all'alba, eventualità, questa, che vi condurrà al vostro luogo di lavoro, guarda caso l'appartamento al secondo piano del mio palazzo, stanchi e tesi, molto stanchi e tesi, così stanchi e tesi che vi ruberete a vicenda il pranzo e innescherete una rissa in slavo che richiamerà l'attenzione di una volante dei carabinieri, i quali noteranno delle gravi mancanze alla voce "sicurezza", obbligando i padroni di casa a interrompere i lavori fino a data da destinarsi e trasformando voi da operai del cazzo in disoccupati del cazzo. Così il giro sarà compiuto: obbligati dal bisogno, infatti, tornerete per le strade a fare quello che sapete fare meglio, cioè lavare i vetri ai semafori, dando finalmente a me la possibilità di indurvi al silenzio semplicemente sollevando il finestrino. LIMORTACCIVOSTRA.

Invidia.

"Nell'impallidire, la sabbia si assesta e sibila. Faye sta guardando il profilo del viso di Julie Smith. Julie ha la pelle più bella che Faye abbia mai visto addosso a qualcuno sulla faccia della terra. Non è solo il fatto che sia tanto luminosa da fare impressione, o che qui, con il riverbero del sole basso sull'acqua, abbia il colore di un buon vino rosato; è che ha la consistenza di qualcosa di veramente vivo, una morbidezza elastica, come un guscio maturo, un baccello. È vulnerabile e ha profondità. È tesa, brillante e dura solo sopra gli zigomi alti e tondi di Julie; le ossa rendono le guance scavate, gli occhi infossati. I contorni del suo viso sono a chiave di violino, quasi slavi. Tutto in lei è come permeabile: anche la sottile fessura nera tra i due incisivi sembra una specie di apertura fatta apposta per infilarci qualcosa, un invito a ritroso".

[Mi immagino rispondere così, da vecchio, citando a memoria questo passaggio di un racconto mostruoso di David Foster Wallace che si intitola "Piccoli animali senza espressione", quando con cinque o sei romanzi all'attivo, una prostata andata e un conto a sei zeri dall'analista, qualche giornalista di una piccola fanzine letteraria, particolarmente attento alle mie stronzate, mi chiederà come mai non ho mai inserito una sola descrizione fisica dei miei personaggi. Be', perché ho pensato che tanto non sarei mai stato così bravo a farlo, dirò, né così esaustivo, in pochissime righe, e devi sapere, ragazzo mio (adopererò locuzioni del genere incoraggiato dai miei capelli bianchi), che io sono sempre stato un soggetto particolarmente incapace di gestire l'invidia]

venerdì 28 ottobre 2011

Chiunque.

Chiunque usi un pennello per spalmare di uovo una torta rustica, chiunque lasci un avocado a maturare quattro o cinque giorni in una busta di cartone appesa a una sedia, chiunque se la prenda con dio per un risotto venuto troppo salato, chiunque sbatta per terra qualcosa davanti all'ennesima mancanza di gentilezza del prossimo, chiunque perda un minuto in più del normale a leggere il retro di una confezione di corn flakes al supermercato, chiunque mostri un'indecisione visibile davanti a due o più bottiglie di vino da aprire, chiunque stringa amicizia con un libraio, anziché limitarsi a trattarlo come un cassiere, chiunque manifesti una debolezza, senza temere di apparire frangibile, chiunque abbia ancora la forza di spalancare gli occhi di meraviglia davanti a un amico che arriva puntuale a un appuntamento nonostante la pioggia, chiunque dimostri di sapersi godere un'emozione senza per forza ricorrere a questo noioso cinismo, chiunque preferisca scendere al bar piuttosto che salire in cattedra, chiunque goda fisicamente per una carbonara perfettamente riuscita, chiunque esulti come Tardelli per un parcheggio trovato sotto l'ufficio, chiunque preferisca un Negroni perfetto a un Negroni "sbagliato", chiunque si senta felice per un invito a cena di martedì, chiunque sappia cantare a squarciagola anche una canzone degli 883, questi è amico mio e io desidero che sopravviva.

giovedì 27 ottobre 2011

58

Come si accende, una motocicletta? Come ci si infila un casco senza ferirsi le orecchie? Lo ignoro. Non ho mai guardato un GP, nutro una perfetta antipatia per Valentino Rossi, esecro quelle tute acetate, non mi piacciono gli sport in cui gli esseri umani siano "appendici". Ma una cosa la so benissimo: so cosa significa vivere esclusivamente per la propria passione. A me già commuove questo, quando lo riscontro: già mi viene voglia di abbracciarmi da solo quando guardo o conosco qualcuno spingere al massimo sull'acceleratore per inseguire un unico, consolidato e definitissimo sogno. Do a questo la definizione di BELLO. Morire di questa roba io non so dire se sia affascinante, doloroso o giusto: ma vale l'emozione. Vale la commozione. Vale la partecipazione. Proprio come la vale un morto di maltempo. Che fa, se qualcuno è andato al funerale del suo campione sportivo preferito perfettamente vestito da motociclista, col casco e i guanti? Che fa se ha condotto fin lì anche suo figlio, conciato alla stessa maniera? Fino a due giorni prima tifavano per lui seduti in poltrona: al funerale di vostro figlio non vi vestireste come lui gradirebbe? Quando un amore vi si frantuma tra le mani, non andate a caccia nei cassetti delle cose e dei profumi che vi avevano reso felici? Non vi imbambolate davanti ai tavoli di ristorante che vi avevano ospitati in due, magari solo la settimana prima? È vero, in tanti muoiono giovani e nessuno ne parla, ma sono vere anche tante altre ingiustizie e almeno queste non fanno male a nessuno. Va bene così: crepare di un sogno sa di buono, come sa di buono morire spalando fango o rovistando tra le macerie. In questi ultimi giorni ho percepito sincero cordoglio, ma molto di più ho letto dell'indignazione di chi, non provando interesse per nessuna cosa, si è interessato improvvisamente a qualsiasi fatto che secondo la sua opinione doveva avere più riscontro della morte di Simoncelli. Se questa è l'alternativa, sentite, io preferisco quelli che si sono presi un giorno di permesso al lavoro per andare a salutare il loro campione più amato travestiti da lui: almeno stasera riempiranno la cena di chiacchiere e, tornando a casa, avranno voglia di guardare meglio il paesaggio. Funziona così, non è mai più complicato: siamo solo persone. Siamo tutti solo persone. Ciao ciao campione, io non so nemmeno perché ti chiamavano Sic.

venerdì 23 settembre 2011

Va ora in onda.

Benvenuti, benvenuti, benvenuti nell'home page del Padre Assassino! Guardate, guardate, guardate le incredibili foto degli occhi da pazzo: signor omicida, ci dica, ci dica, ci spieghi le ragioni del suo gesto. Niente affatto: dovete prima riferire col mio agente. Ecco, signora, lei che è la vicina di casa dell’omicida, ci racconti: se lo aspettava? Ma guardi un po’, era tanto una brava persona, le assicuro, pensi che usciva coi figli tutte le mattine e prima di portarli a scuola entravano lì nel forno a prendere i cornetti per la colazione. E dunque lei è il fornaio: che cosa può dirci del pazzo? Santo cielo, una carissima persona, pulita e posata, chi lo avrebbe mai detto che amasse i coltelli a tal punto?
Benvenuti a “Porta a Porta”, questa è la statua di cera che riproduce esattamente il corpo martoriato della vittima, e questa sera al “Maurizio Costanzo Show”, in esclusiva, i ballerini di “Amici” insceneranno il dramma delle madri assassine: a seguire un’inchiesta di Alba Parietti sui traumi psicopatologici post partum e da domani in libreria “La mia verità”, lo sconcertante esordio letterario di Mammamaria Franzoni.
Ecco lei, signore caro, sì proprio lei, perché si trova qui dalle cinque di questa mattina davanti al Tribunale? Faccio la fila per vedere il mostro con questi vivi occhi, mi pare ovvio! Per poterlo toccare! Per poterlo avvicinare! Sa che il mio povero bambino sta tanto male e allora noi crediamo, la mia signora ed io crediamo, che un autografo del mostro lo potrebbe rimettere in sesto almeno per un po’, ridargli il sorriso.
Din-don! Grandi novità nell’inchiesta dell’ultimo barbaro caso: ritrovati dei peli incriminanti! Al lupo al lupo: appartenevano al cane. Con tutti questi extracomunitari in giro, è normale che prima o poi ci scappi il morto, dice la brava gente. Recuperata, dopo quattro anni, l’arma del delitto: si trovava ancora conficcata nella carne dell’ucciso. Intanto i Ris di Parma si sono convinti: l’omicida è una donna, ha colpito con la mano sinistra e apparteneva agli ultras della Lazio. No, fermi tutti: passo indietro nelle indagini, il morto non è morto: è stato visto vivo a comprare “Il Manifesto”, vuoi vedere che il morto era comunista?
Ta-daaan! Nuovo ed agghiacciante video dell’adolescente impazzito: per soli tre euro e mezzo potete scaricarlo da Internet. Ritrovati finalmente nel pozzo i corpi mummificati dei bambini. Signora! Signora Permette una domanda? Come si sente ad essere una madre di tre meravigliosi bambini morti?
E adesso un bel primo piano: guardate come sono belle queste due teenagers assassine! Nel loro dna hanno, insieme alle prove scientifiche della colpevolezza, anche le credenziali per diventare le nuove, fotografatissime Veline! Guardate, guardate, guardate come sorridono alle telecamere mentre vengono portate nel carcere di massima sicurezza.
Edizione straordinaria! Edizione straordinaria! Nessuna novità sul delitto di Perugia! E proprio di questo parleremo nella puntata odierna di “Matrix”, cioè del NIENTE: massimi esperti in studio Valeria Marini, Riccardo Scamarcio, Rodolfo del “Grande Fratello” e il famoso psicologo della televisione, uno alla volta, per piacere, uno alla volta ché altrimenti a casa non capiscono niente!
Adesso l’arbitro fischierà il minuto di silenzio per ricordare la scomparsa dei piccoli innocenti orribilmente trucidati dallo zio, l’ozio è il padre dei vizi, per questo il tenente ammiraglio in pensione ha massacrato la famiglia con la pistola d’ordinanza: lui senza lavoro era disperato e depresso. Previsto per domani un sit-in dei lavoratori in cassa integrazione.
Buonasera dal Tg1: nuovissime ed inquietanti novità dalla scena del delitto del giorno. Sembra, in effetti, che ad uccidere non sia stata una sola mano, ma due: ciò non toglie che l’omicida possa essere ambidestro, permangono i dubbi, i dubbi, i dubbi. Ne parleremo nella prossima puntata!
E allora buonasera dall’informazione di La7, ospite in studio Giuliano Ferrara che ci dimostrerà scientificamente come questo imbarbarimento delle famiglie moderne, tanto votate alla violenza domestica, sia dovuto alla pillola del giorno dopo. L’assassino dice: sono innocente! L’assassina dice: sono innocente! Le prime pagine dei giornali titolano: gli assassini sono innocenti! I testimoni hanno preso un abbaglio, il Dna si sbaglia, le prove sono contraffatte, le testimonianze inverosimili: qualcuno mente, ma CHI? Televotate, televotate, televotate!
Sospetto assassino trovato in possesso di materiale pedopornografico. Ma prego, ci racconti la sua verità, in esclusiva, ai nostri microfoni. Volentieri, ma fanno 100mila euro, grazie. Lacrime comprese nel prezzo.
Signore e signori buonasera: apriamo con la crisi d’ascolti del Festival di Sanremo, a seguire le ultime sconcertanti novità sul caso della “cascina degli orrori”, ma ora le previsioni del tempo. A seguire, in esclusiva su MTV, il rap assassino che ha fatto impazzire il collegiale americano: ascoltatelo con un adulto vicino, ci raccomandiamo, e se doveste anche voi avvertire degli istinti assassini, vi preghiamo cortesemente di mettervi subito in contatto col nostro ufficio commerciale.
Un, due, tre, jingle, jingle, jingle: dalla mezzanotte di oggi collegatevi col sito e potrete guardare il mostro in carcere 24 ore su 24 via webcam.
Din don dan, ecco a voi un messaggio dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: se proprio devi morire ammazzato, fallo, per piacere, lontano dalla campagna elettorale, oppure, in alternativa, se sei l’assassino, lascia evidenti tracce sul corpo della vittima così che noialtri, cioè il BENE, ti si possa rintracciare tempestivamente e affidare alle patrie galere per la gioia degli elettori.
Ultim’ora: altre cento morti bianche, caccia al responsabile. I sospetti cadono sul lavoro perché ieri sera a quest’ora non aveva un alibi. Din don dan, nuovo messaggio dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: gentile lavoratore, gentile lavoratrice, caso mai dovesse capitarti di assistere alla tragica morte di un collega, per piacere, evita di andarlo a salvare, almeno così avremo un solo morto anziché due, il che farà comunque meno notizia. Din don dan, fine del messaggio. Massì, dirà il Cittadino Medio con un gomito fuori dal finestrino della sua Porsche, ma in fondo thyssenefrega.
E torniamo alla notizia principale della giornata: dramma della povertà in provincia di Paperopoli: Qui, Quo e Qua trovati morti là. Già fermato lo zio che si difende: non avevamo più il becco di un quattrino. Domani su “Oggi” tutte le novità in esclusiva, tra cui: lo zio assassino in una rara foto di quando aveva 14 anni, lo zio assassino fotografato col nuovo flirt e, per la prima volta, le immagini della casa dell’orrore: guardate le tracce di sangue sulle pareti e scovate le 14 piccole differenze, ricchi premi in palio, noi torniamo dopo la pubblicità.

Erano animati, animati dallo sconforto.

- Te la sei scopata almeno?
(getta via la sigaretta con una schicchera esperta. C'è una certa dose di consapevole esibizionismo, anche)
- Fiuuuu. Avresti dovuto vedere che femmina... Ero certo di distruggerla, invece mi ha distrutto lei...
- Non hai più il pelo di una volta, Tom.
(sorride, ma il sorriso dura poco. Pensosamente si liscia un baffo)
- Ti voglio dire solo una cosa, Jerry: mi ha legato al letto...
- ...
- ... Le ho miagolato le cose più sconce. Diceva che le piaceva così e a me andava bene. Insomma, se di mezzo c'è la micia non si rifiuta niente. O no?
- Puoi dirlo…
- ...
(evitano di guardarsi per un momento. C'è qualcosa nell'aria che non è stato ancora detto)
- E con quella storia, invece? Che pensi di fare?
- Guarda... Ho sentito l'avvocato. Dice che mi devo rivolgere al sindacato. Che ci dobbiamo rivolgere al sindacato...
- Al sindacato?
- Sì, al sindacato. Lo so cosa stai pensando: ma è tempo di agire, Jerry. Questi vogliono la nostra pelle, non abbiamo più la libertà d'azione di una volta. Un tempo eravamo le star, ci permettevano di tutto. Adesso hai visto? Gesù, i ragazzini stravedevano per noi... Ora che i bei tempi sono finiti, con tutto quel vomitevole wrestling e il 3-D e via dicendo, ecco che basta una cazzata per...
- E tu la chiami cazzata?
- Santo dio Jerry! Ho fumato una sigaretta, e allora? Non ti ci mettere anche tu, adesso... Ho solo fumato una sigaretta e adesso vogliono la mia testa. Neanche fossi Ghandi o un Reale d'Inghilterra…
(se ne accende un'altra. La camera è in penombra. Ci sono delle veneziane e una vecchia macchina da scrivere su un tavolo logoro che difetta di una "T". I posacenere sono dappertutto)
- Non è che mi ci metto, Tom. Ma le sai le regole dell'authority, no? Ci hanno fatta una testa tanta e tu ti metti a fumare sul set? Davanti alle telecamere! Coi giornalisti e i fotografi!
- Il mio Vietnam è la micia, c'è poco da fare…
(guarda l'amico in cerca della vecchia complicità. Non la trova)
- Sì, e noi perdiamo il lavoro perché tu dovevi per forza offrire da fumare a quella tizia…
(torna serio)
- A parte il fatto che non so se hai visto com'era vestita; comunque, non dire cazzate. Sono solo IO che rischio il lavoro: tu sei quello bravo e buono e reciterai questa parte per sempre...
- Tom, stronzate! (si alza dalla poltrona dove bivaccava. Rovescia una lattina di birra vuota) Lo sai benissimo che io da solo non valgo niente! Cosa pensi che mi faranno fare, DA SOLO? Pensi davvero che mi daranno lo show del sabato sera, come mi continua a dire quell'inetto del mio agente? Non mi daranno un cazzo. Noi siamo una COPPIA, capisci? Dean Martin e Jerry Lewis, Totò e Peppino De Filippo, Stanlio e Olio, Walther Matthau e Jack Lemmon: lo sai come funziona lo spettacolo, no? Io sono la spalla, cazzo. La spalla da sola a che cosa serve? Se sei finito tu, sono finito pure io...
- ...
- Senti, c'è solo una cosa sicura: se andiamo al sindacato siamo rovinati.
- Il fatto è che saremo rovinati lo stesso, amico mio... ci hanno censurato una puntata. Ti rendi conto che cosa significa? Nessuno vorrà più trasmettere la nostra roba: perfino meno di adesso…
- No, Tom, senti. Ti ricordi cosa successe al Gatto Silvestro? Quando morse davvero Titti sul di dietro e via dicendo? Quella puttana lo denunciò e lo fermarono per non so quanto. Lui, consigliato dall'avvocato, si rivolse al sindacato e…
- Lo so, lo so...
- Appunto! Ti sei fumato anche il cervello, per caso? Gliene successero di tutti i colori! La stampa si accanì in quel modo e da allora non ha mai più lavorato. Non mandano neanche le puntate in bianco e nero, niente. Kaput, finito, bye bye. Le major non ne vogliono più sapere: un cartone animato che si rivolge al sindacato è come un politico che pretende di non fare la fila al ristorante. Oppure un calciatore che sciopera! Non lo accettano, la gente è stupida e invidiosa e se sei un privilegiato e ti sei arricchito col tuo talento, allora non puoi avere diritti! Secondo loro dovremmo accettare gli inconvenienti sul lavoro e basta. (segue un momento di silenzio, poi Jerry riprende, con un tono di voce più basso rispetto a prima) Questo maledetto fatto che non possiamo morire è una condanna... Non ce lo riescono a perdonare. Nessuno di loro...
- E io che dovrei fare, allora? Noi, Jerry, che dovremmo fare?
(si dimentica di fumare. La sigaretta diventa un cilindro di cenere tra le sue dita)
- Io propongo di prostituirci...
- Cosa?!
- Di prostituirci. In questo senso: diamoci al sociale. Il mio agente mi ha già fatto delle proposte interessanti. Pubblicità anti-fumo, cose del genere. Mostriamoci pentiti e bla bla bla... Io che ti rimprovero, tu che mi prometti di non rifarlo e baggianate simili...
- Dio, che vomito...
- Lo so, ma è l'unica via lo capisci? Un po' di pubblicità progresso gratis e l'immagine sarà ricostruita. Ci inviteranno in qualche talk-show, tu farai una di quelle scenette da fumatore pentito e schiaccerai sotto la zampa qualche mozzicone. Facciamo un paio di numeri, mi dài qualche martellata, facciamo ridere i bambini e via: i contratti torneranno a fioccare. Vedrai, lo sai che me ne intendo di queste cose.
- ...
(alle pareti sono appese tantissime foto incorniciate. Tom & Jerry in smoking che ritirano premi dalle mani di personaggi rappresentativi, Tom & Jerry con un mazzo di microfoni sotto i baffi. Ci sono delle statuette con targhe commemorative su ogni ripiano, ma tutte sono impolveratissime e qualcuna, addirittura, è sistemata al contrario. Vicino alla porta d'ingresso c'è una grande foto di Mickey Mouse, con quella blusa rossa e i bottoncini gialli. C'è scritto: "A Tom & Jerry, pionieri". Su un ritaglio di giornale, ormai sbocconcellato, si legge, in grassetto: "Dodici minuti di applausi!")
- Tom?
- Ma non lo capisci, Jerry?
(adesso parla a occhi chiusi. Dappertutto c'è un odore di cose perdute e altre destinate a finire male)
- Che cosa?
- Ma quali contratti? Non lo capisci che la sigaretta è solo una scusa? Un capro espiatorio. Ci censurano qui, ci levano dalla programmazione là... Tutta una scusa. La verità è che non ci guarda più nessuno; non facciamo più ridere nessuno. Forse negli anni '60, adesso la tv è piena di violenza autentica; perché dovrebbero guardare la nostra posticcia? Siamo passati, amico mio.
- No, tu sei sempre stato troppo...
- Dài… Non facciamo che darcele di santa ragione da cinquant'anni, Jerry. Tu hai rimediato un'ernia del disco e io una denuncia per guida in stato di ebrezza dopo quella festa dai Rabbit. Chi eravamo prima del grande boom? Tu facevi la controfigura in un circo, io ho vinto un concorso per ex tossicodipendenti da reintegrare. Rendiamoci conto di chi eravamo, ringraziamo il cielo per quello che abbiamo avuto e smettiamola di fare i finti tonti. Non c'è più spazio per noi... A un certo punto bisogna sapersi tirare indietro...
- Il mio agente dice...
- Non me ne frega un cazzo di quello che dice il tuo agente, Jerry! Quello è un frocio con un'ossessione per i soldi e gli anelli kitch. Guardati intorno, stanno cadendo tutti: Titti, dopo la causa vinta con Silvestro, è fallita del tutto e adesso tiene quella stupida rubrica di cucina in televisione. L'hai visto Bugs Bunny com'è finito? A fare i clippini su Facebook!
- Con tutta la coca che si tirava non c'è mica da stupirsi...
- Va bene, ma io non mi voglio piegare! Ne sono tutti usciti male, perché hanno provato a recuperare, hanno provato a lottare, senza accettare l'eventualità più semplice e cioè che la gente si è semplicemente stufata. Quelli di Walt Disney, allora? Dài, non si scappa: sono alla frutta perfino loro che avevano dietro quel po' po' di struttura, effetti speciali, grande distribuzione e cinema! Siamo fottuti, sigaretta o non sigaretta.
(si alza, poi si accorge di non avere un solo posto dove andare al mondo e allora si risiede. Sono solo cartoni animati. Animati dallo sconforto)
- Ma di loro si sapeva che sarebbero finiti male, Tom... Con tutto quel buonismo del cazzo, non c'era scampo... Erano destinati a passare di moda... Oggi come oggi resistono solo i Simpsons. Quei bastardi hanno una fortuna del diavolo... Non avranno mai bisogno del sindacato: hanno più visibilità del Presidente della Repubblica. Noi, con qualche modifica narrativa o stilistica, potremmo farcela. In fondo ci picchiamo. L'hai detto tu stesso che la violenza va eccome di moda!
- Ma hanno reagito così per una sigaretta, figurati se ci permetterebbero di cambiare altro. Quello che sto cercando di dirti è che siamo passati di moda. C'è il computer, la gente va a vedere Cars, Shrek, oppure si rincoglionisce di donne nude e guerra. Trent'anni fa non avrebbero fatta una piega per due tirate. Ti ricordi come facevano? Signor Tom di qua, signor Jerry di là. Ci trattavano a cocktail di gamberi e portiere aperte. Guardati intorno, guarda tutte queste foto! (fa un ampio gesto con il braccio) Non mancavamo a una festa, altro che sorelle Hilton. E oggi? Passiamo le giornate nel tuo studio a guardare videocassette e a provare numeri ritriti. Ci rincoglioniamo di alcol e fumo e guarda, tu guarda questo ridicolo martello gigante di polistirolo! Non capisci che è PREISTORIA, maledizione!?
(scaglia il martello verso l'amico, in un impeto di deformazione professionale. Jerry lo scansa con un effetto sonoro gommoso)
- ...
- Io non li faccio gli spot progresso, Jerry. Non faccio un passo indietro: fumo quaranta sigarette al giorno, che spot dovrei fare? Le ho provate tutte, lo sai. Alla fine ero in una tale confusione che masticavo i cerotti alla nicotina; a cosa dovrebbe servirci non fumare, se non possiamo neanche beccarci un cancro? Me lo spieghi? Tu non hai i tuoi film porno con cui ti trastulli tutte le notti davanti a quel computer? Ognuno è quello che è: prima non contava un accidenti. Oggi ce le fanno pagare tutte, perché non gli rendiamo più i soldi di prima. Siamo solo cartoni, dio santo: non ci perdonano il fatto di avere un vita. Quelli vanno a vedere tutti entusiasti un panda che fa kung-fu! E pagano, anche: noi siamo gratis!
- E' che i bambini ci hanno presi a mo' di esempio e noi dovremmo...
- Ma quale esempio?! Siamo un cartone animato che si basa - di fatto - sulla violenza e l'umiliazione reciproca e dovremmo dare l'esempio? A chi? Il nostro pubblico è fatto per il 90% da marmocchi repressi lasciati in balìa della televisione da genitori assenti. Le hai lette le statistiche diffuse dall'Ordine Nazionale, no? Dovrebbero essere LORO ad essere censurati, mica noi. La verità è che non siamo più all'apice... E quando smonti dall'apice, Jerry, ci vuole un miracolo per risalirci... Ricordati sempre dei Jetsons, di come hanno finito per sperperare tutto in avvocati divorzisti... O di Will il Coyote, che è finito in analisi e ora non esce più di casa perché ha paura di qualsiasi rumore. Altro che privilegiati: la pensione di invalidità ci dovrebbero dare.
- Un miracolo dici...
- E il tuo agente li fa i miracoli? No, non li ha mai fatti. E io un agente non ce l'ho, da quando quello stronzo fece il doppio gioco con l'Orso Yogi e io ci persi un sacco di soldi. Basta con questi agenti, e se ricorrere al sindacato ci porterebbe solo danni come dici tu, allora tanto vale...
- Non potremmo fare come i Flinstones?
- Che hanno fatto quei trogloditi?
- Hanno aperto un locale, lì in America.
- Ma quelli sono una S.p.A., Jerry. E hanno sbancato anche al cinema, non ti ricordi? Con tutti quei dinosauri del cazzo. Sono un marchio vincente e la gente ci corre ancora dietro. Noi chi siamo? Un gatto opportunista e un piccolo topo d'appartamento. Ce l'abbiamo mai avuti i dinosauri forse?
- Ehi!
- Senza offesa...
- E allora che ne sarà di noi? Cazzo, Tom, abbiamo vinto SETTE Oscar, non può finire in questo modo. Non può essere semplicemente tutto qui…
- E invece è così. Il più delle volte una fine è una fine. Non c'è morale.
- …
- A meno che…
- Cosa?
- Lo sai…
- Merda, Tom. Tanto vale andare al sindacato!
- Il sindacato ci affosserebbe. Invece quell'altra cosa ci rilancerebbe…
- Ma nel modo sbagliato!
- Sei diventato un moralista improvvisamente? Non paghi le tasse da quarant'anni e ti scandalizzi per…
(il silenzio gelido viene rotto da una sirena della polizia che passa giù in strada. Tutti e due guardano verso la finestra)
- Tu pensi davvero che sia l'unica soluzione?
- Altrimenti la pensione, te l'ho detto.
- Non siamo così vecchi, vaffanculo!
- Senti, in fondo non sarebbe poi così diverso da una di quelle pubblicità progresso del cazzo che volevi fare tu.
- E in più non sarebbe gratis…
- Vedi che stai venendo a me?
- Dopo tutto l'ha fatto anche Braccio di Ferro e oggi la tv via cavo ritrasmette tutte le vecchie puntate e pare che gliene facciano fare di nuove…
- Tàc.
(Tutti e due si fermano a pensare, ma in realtà è solo Jerry che sta pensando. Dopo poco, infatti, Tom si alza e accende un'altra sigaretta. Ne aspira una grande boccata, poi la tiene tra le labbra sottili. Protende le zampe verso quello che potrebbe essere l'infinito e con gli indici e i pollici distende l'imitazione di una grande insegna luminosa. Gli occhi gli luccicano e con la voce canticchia una qualche sigla prodigiosa d'avanspettacolo)
- Sì, amico mio. Sì. Quello che ci vuole adesso
è un grande
grandissimo
R-E-A-L-I-T-Y-S-H-O-W.

Il Vietnam al posto di un'infanzia felice.

Mi piacerebbe parlare di un libro edito da Rizzoli e scritto da uno dei più famosi corrispondenti di guerra al mondo: si tratta di “Dispacci” di Michael Herr, forse il libro più intenso che abbia mai letto.

Dal lavoro di questo straordinario giornalista hanno tratto due filmetti di genere di poco conto, come “Apocalypse now” e “Full metal jacket”, ma questo è un dato utile per incrementare le vendite. Un altro dato utile ad incrementare qualcosa, cioè l’attenzione, è questo: lo scrittore britannico John le Carrè ha definito “Dispacci” il più bel libro sulla guerra dopo l’Iliade. Il terzo ce l’ho già messo io, definendolo probabilmente il libro più intenso che mi sia mai capitato di leggere. Potrebbe bastare questo per invitarvi all'acquisto e alla lettura e a farla finita qui, ma se disponete di qualche minuto di tempo ancora, vorrei provare a farvi fare un giro un po' più lungo.

"Dispacci", infatti, è uno di quei testi in grado di restituirvi alla vita diversi da come vi aveva trovato. La potenza letteraria è spaventosa e la componente giornalistica altrettanto. C’è anche un’introduzione di Roberto Saviano, molto inutile, perché quasi subito il Nostro comincia a parlare di se stesso, riferendoci di quanto gli sia stato necessario “Dispacci” nella sua “personale guerra” e bla bla bla: però una cosa interessante la dice, cioè che dopo di questo, Michael Herr non ha mai più scritto un solo libro, niente, neanche una riga. Certo, ha collaborato alla sceneggiatura dei due capolavori di Coppola e Kubrik, ma quanto a libri, zero. Ho controllato, ed è vero. Questa cosa mi ha colpito tantissimo: l’efficacia letteraria di “Dispacci” è talmente evidente, assoluta, completa, che è come se questo scrittore si fosse sentito appagato, esaurito, “finito” già dopo questa sua prima e unica opera. Non mi pare di aver mai letto niente di nessuno che non abbia mai più scritto, dopo. Forse è per questo che nel suo libro c’è così tanto: perché c’è tutto. Tutto quello che voleva e doveva dire. Il massimo grado di sincerità possibile.

Leggetelo, dicevo.
Non solo vi informerà sulla guerra delle guerre, la più lunga e tra le più sanguinose della nostra storia, la guerra persa dagli americani, la guerra che, per paradigma, riesce ad incorporare tutte le altre, in quanto sublimazione della totale inutilità della guerra stessa, intesa come processo di “pacificazione”; non solo farà questo, ma vi calerà in un territorio altrimenti inesplorabile e inconoscibile, com’è quello della morte, della pazzia e della vita umana. “Dispacci” parla soprattutto di questo: è il primo libro della mia vita da cui abbia tratto un’impressione netta di “testimonianza dell’aldilà”. Secondo me (ora si udiranno dei tuoni in lontananza) è una specie di “Divina Commedia” dantesca: del Sommo si diceva che avesse conosciuto Inferno, Purgatorio e Paradiso tramite una specie di viaggio dell’anima, una sorta di "mesmerizzazione", e che fosse tornato a noi per poterlo raccontare: una missione divina, superiore. La medesima sensazione l’ho percepita col libro di Herr: è come se questi avesse ricevuto la possibilità di visitare il territorio che è “oltre” tutti noi, quello della morte, della pazzia, dell’irragionevole cattiveria pura, e di potervi fare ritorno per testimoniarcelo, per dirci: ehi, è così che funziona laddove voi non potrete mai andare. Ci sono io per dirvelo e adesso infatti ve lo dico.

Tante volte, terminato un libro, ho avuto voglia di telefonare all’autore, di chiedergli qualcosa. Finito “Dispacci” ho avuto voglia di abbracciare Michael Herr, perché l’opera che ci ha lasciato in eredità è scritta con un inchiostro che nessuno di noi potrà adoperare, mai, indipendentemente dalla tecnica, dalla maestria. È lo stesso territorio dei Baudelaire e dei Dostoevskij, solo che lui anziché andarci con lo spirito, con la testa, ci è andato col corpo. Herr fa cose semplicissime e incredibili, come raccontarci, finalmente, una volta e per tutte, di che cosa sa questo benedetto napalm. Ci racconta per filo e per segno cosa si prova quando si sentono i proiettili colpire la fiancata dell’elicottero su cui si sta volando: «Riflesso al fuoco da terra: stringi le chiappe e sollevati di qualche centimetro dal sedile. Strizza bestiale, bastardo; usavi dei muscoli che non sapevi neanche di avere», ci racconta il colore della notte durante la guerra, ma soprattutto ci racconta dei volti e delle facce dei ragazzi impegnati nel conflitto più inutile e frustrante della nostra storia, ci parla della stanchezza, della pazzia, dei fantasmi. Ci svela com’è camminare fisicamente di fianco alla morte, continuamente, tutti i giorni.

Aveva una di quelle facce, ho visto quella faccia almeno mille volte in un centinaio di basi e di campi, tutta la gioventù succhiata via dagli occhi, il colore prosciugato dalla pelle, le labbra bianche e fredde, sapevi che non avrebbe aspettato che nessuna di quelle cose ritornasse [...] Queste erano le facce di giovani contro i quali parevano essersi rivoltate le loro intere vite, erano lontani neanche un metro ma ti guardavano da una distanza che sapevi non avresti mai cancellato veramente.

C’è un momento bellissimo, nel libro: Herr riesce a tornare per qualche giorno a Saigon (lui è un corrispondente: può andare e venire come gli pare), è uno dei suoi primi “ritorni” dal fronte e in una sola immagine che lo scrittore ci elargisce c’è tutto il cambiamento che la guerra è riuscita ad inoculargli. Semplicemente davanti a degli scarafaggi orribili che gli camminano a un passo dal cuscino e nel piatto della doccia, lui non fa una piega. Quello che fino a pochi mesi prima lo avrebbe terrorizzato, adesso non gli fa più né caldo né freddo. È un’immagine semplicissima, banale, anti-poetica, eppure fulminante: «Cosa potevano farmi?», riflette l'autore, nella sua camera finalmente lontano dagli spari e da tutto quel sangue.

C’è un altro passaggio memorabile del libro. Herr sta raccontando di quanto la guerra riesca ad annullare tutto il resto, a tirare via qualsiasi pensiero alternativo: ci sta descrivendo una serie di zombie, più che di soldati, ormai dediti al conflitto in tutto e per tutto, completamente nolenti, ma senza altra possibilità che andare avanti. La disperazione di tutto ciò, Herr la rivela spiegando che gli addetti al registro sepolture, spesso e volentieri, trovavano negli zaini dei marine morti lettere provenienti da casa che erano state consegnate giorni e giorni prima e che nemmeno erano state aperte.

C’è qualcosa di “sublime”, non so se lo percepite anche voi. Io non ho mai attraversato territori simili, leggendo. Ci sono altre due cose che fa Herr, e poi non dirò più niente, perché altro non serve: riferisce della stupidità e del fascino della guerra. Riesce a fare queste due cose tanto diverse nello stesso momento e con la stessa efficacia, risultando due volte credibile. Usa tutta una schiera di personaggi meravigliosi e tragici, che mi sono rimasti a tal punto dentro, che terminata la lettura ho dovuto perdere un’ora su Internet per cercarne i volti, adoperando Google e Youtube: mi è sembrato di impazzire quando mi sono reso conto di avere avuto a che fare, per tutta la durata di quelle 290 pagine, con persone reali, che sono esistite veramente, la maggior parte delle quali è ancora viva, soprattutto reporter, fotografi, ma anche soldati semplici, berretti verdi e generali. Qualcuno degli scatti fotografici di cui parla Herr nel libro li ho ritrovati su Internet e, non lo so, non riesco bene a spiegarlo, ma è stato come fermarsi in macchina, in prossimità delle strisce pedonali, e vedere attraversare il capitano Achab. Come stendere l’asciugamano in spiaggia e vedere a riva Santiago col suo gigantesco marlin tenuto ancor all'amo sulla spalla. Dici no, non può essere vero: non può essere successo tutto sul serio.

La stupidità della guerra.
È un tema carissimo a “Dispacci”. C’è un passaggio che fa addirittura sorridere (ce ne sono molti che fanno proprio ridere) in cui Herr racconta di questo colonnello «il quale era convinto che ogni uomo sotto il suo comando avesse bisogno di fare l’esperienza del combattimento, così ordinò a tutti i cuochi e i furieri e i soldati della sussistenza di prendere gli M-16 e uscire in perlustrazione notturna, e una volta tutti i suoi cuochi furono sterminati in un’imboscata».
Sembra un anticlimax di Woody Allen e invece è successo veramente mentre i nostri genitori si mettevano i pantaloni a zampa d’elefante per andare all’Università.

Il fascino della guerra.
Sentite come ne parla Herr, che racconta l’esperienza di uno dei suoi amici più cari, laggiù in Vietnam, Tim Page, anche lui reporter di guerra, il quale un bel giorno, ormai tutti ritornati alle loro vite borghesi, riceve la proposta da un editore inglese di scrivere un libro intitolato “Basta con la guerra”, il cui scopo sarebbe stato di “togliere fascino alle guerra:

Page non riusciva a mandarla giù. «Togliere fascino alla guerra! Ti rendi conto, porca miseria, e come diavolo si fa, eh? Va' un po’ a togliere fascino a uno Huey, va’ a togliere fascino a uno Sheridan... Tu sei capace di togliere fascino a un Cobra? A un buono spinello a China Beach? È come togliere fascino a un M-79, togliere fascino a Flynn». Indicò una foto fatta da lui, Flynn che rideva con un’espressione da pazzo, di trionfo («Stiamo vincendo», diceva). «Non c’è niente che non va in quel ragazzo, non è vero? Permetteresti a tua figlia di sposare quell’uomo? Ooooh, la guerra ti fa bene, a questo non puoi togliere fascino. È come cercare di togliere fascino ai Rolling Stones». Non riusciva veramente a trovare le parole e agitava le mani in su e in giù per sottolineare l’assoluta follia della cosa.
«Cioè, tu lo sai, non si può fare proprio!». Entrambi ci stringemmo nelle spalle e scoppiammo a ridere, poi per un istante Page apparve molto pensoso. «Solo l’idea è delirante», disse. «Ooooh, che ridere! Togliere il maledetto fascino alla maledetta guerra.»

Leggete “Dispacci” di Michael Herr.
Vi appassionerete non alla guerra, ma al suo esatto opposto, qualunque esso sia.
Forse perché, per dirla con le sue stesse parole, «dopo tutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone».



Il contrario della normalità.

Parlare dell’amicizia è portarsi dietro un carico di retorica inevitabile. Parlare dell’amicizia è uno di quegli esercizi sempre identici che si facevano a scuola, durante l’ora di educazione fisica: bene che andava si giocava a una specie di pallavolo che dopo venticinque minuti diventava una specie di calcetto, tra gli strepiti di protesta delle ragazze, sennò si ripassava la materia dell’ora successiva. Nessuno di noi è mai riuscito a farla più complicata di così. Un tizio, un filosofo americano, una volta ha scritto che l’amicizia è il tacito accordo tra due nemici di voler collaborare per un bottino comune. In tal senso, è stata un’estate che non è rimasta a guardare, questa, il che, al di là del potere suadente delle allitterazioni, le quali ancora hanno il potere di farmi sorridere come il ricordo di una serata riuscita, è un gigantesco guadagno rispetto agli ultimi tre anni trascorsi. Udite, udite: ‘sta volta sono stato bene.

Se non mi sbaglio (ero vagamente ubriaco di vino prodotto in casa, un vino rosso poderoso), davanti a me si stagliavano, eterni, incorruttibili, fermi come il Colosseo, i miei due amici più Antichi. Che c’è di nuovo in questo? Niente. Gli amici non fanno altro che stare insieme e stare bene, ciascuno a modo proprio, e io sono malato di moltissime cose ma non di solipsismo, e dunque so che quello che sembra unico e incredibile a me, è unico ed incredibile, all'incirca, per il 99% di tutte quante le altre persone. Va bene, ecco cosa stava succedendo, né più né meno: i miei due amici più Antichi stavano di fronte a me, a cena, nell’ambito di una vacanza che non ci riuscivamo a concedere, insieme, da sette anni, e mentre li guardavo parlare mi sono messo a pensare proprio a questo, cioè che quella cosa lì era di una scontatezza sconcertante e, dunque, confortevolissima. Mi sono seduto su un divano, che era rosso, e li ho guardati per un momento, prima di volgere gli occhi altrove, dicendo a me stesso che anche noi, in quanto esseri viventi, stavamo contribuendo a quel miracolo quotidiano che è la normalità. Ecco qua i due miei amici più Antichi che parlano tra di loro, senza nemmeno una sovrastruttura che li modifichi da quello che sono veramente. Non ho la pretesa di pensare che i miei amici, sebbene i più Antichi, siano davanti ai miei occhi quello che sono quando si ritrovano nel letto da soli, nel cuore della notte, un istante prima di addormentarsi: certi gradi di sincerità non sono fatti per essere condivisi e chi lo fa è un cretino o un falsario. Eppure, secondo me, nel caso di cui sto rendendo conto, ci sono andati vicini. Parlavano, tutto qui, e a me, da lontano - “lontano” si fa per dire, visto che stavo su un divano a due metri di distanza, epppure lontanissimo lo stesso, perché momentaneamente ero uscito dalla conversazione (ogni tanto mi piace farlo) - a me, da quella posizione, quasi quasi è scappato un colpo di tosse, cazzarola, uno di quelli che usi per coprire il rumore della deglutizione, al cinema, quando non vuoi dare a vedere al vicino di posto che quella scena commovente ha colpito anche te: la banalità del tutto accresceva il senso di meraviglia, anziché sotterrarla. L’amicizia, il potere dell’amicizia, sebbene retorico, è un’attività opposta all’archeologia. Non servono grandi scheletri millenari per gridare al miracolo, questo voglio dire: serve tutto il contrario.

Parlavano, non ricordo di cosa, ma parlavano, e a me questo, espressamente questo, è parso un miracolo, dopo il grembiule azzurro delle elementari e Dante e Paolo e Francesca e il sussidiario e le prime ricreazioni e tutto quel conoscersi tra i banchi e lavagne e gessi e guerre di cancellini e dispetti e litigi e penne Staedler e i compiti in classe e il greco e il latino e Camillo Benso Conte di Cavour e loro due che andavano benissimo e io una merda e le ragazze e la pubertà e la patente e il primo Long Island e la maturità e la seconda guerra mondiale e la rivoluzione francese e le lambda e il pi greco e le lauree e l’America e i distacchi e gli aerei che sono partiti e le macchine che se ne sono andate e i ritorni e i disastri e le morti e gli abbandoni e le lacrime e i perché e gli addii e i fallimenti e le strade sbagliate e gli errori e le incomprensioni e i concerti e gli scudetti e le coppe dei campioni e i pompini e le tette di quella e gli stipendi e i giri offerti e i finestrini e le arie condizionate e i giornali e le crisi economiche e gli Ibrahimovic e i Mondiali e le droghe e quelli che non ce l’hanno fatta, compreso Roberto Baggio, e dopo tutte queste cose, che la metà poteva anche bastare a fare di noi degli sconosciuti, dopo tutte queste cose come puoi adoperare un termine diverso da “miracolo”?

Non fa niente se altri dieci milioni l’hanno compiuto uguale: in quel preciso Momento sei unico, stai moltiplicando i pani e i pesci, anzi meglio, e i tuoi due amici più Antichi ce li hai solo tu e quella è una scacchiera, davvero dico, quell’istante è il movimento pensatissimo sopra una scacchiera, frutto e conseguenza di tutti gli altri movimenti fatti fino a lì. Tutte le parole dette, quelle non dette, ogni cosa ha contribuito a produrre quel Momento Perfetto, cioè i miei amici più Antichi in vacanza con me a parlare fra di loro: Dante è morto, Leopardi è morto, e noi no. È vero, lo facciamo tutti, ogni giorno, nessuno è speciale, ma allora perché non ne parliamo? Gesù, si passa il tempo a discutere della piaga dell’abbandono di questi cazzo di inutili cani di merda e mai nessuno che abbia la voglia o il tempo di raccontare perché e per come la coincidenza di due amici Antichi che parlano tra di loro sia bellissima.

Abbiate il coraggio di esaltare la meraviglia della normalità.
A fare il contrario sono tutti bravi.

Infedelmente vostro.

Io adesso parto. E penso, prima che tutto succeda, alle belle cose a cui andrò incontro, perché prima che succedano - non me lo invento certo io - le cose sono piene di lucine intermittenti che poi si spengono, necessariamente, se non altro perché a un certo punto, be' succedono. È solo una piccola vacanza, ma mi mancherà la mia poltrona Ikea, il mio Mac portatile sporco di cioccolato, il Cappuccino disgustoso in polvere che mi bevo con soddisfazione la mattina davanti al balcone della cucina, mi mancherà il litorale laziale, pure se sto per andare in uno molto più bello, mi mancheranno le stronzate con gli amici, e non fa niente che dove sto andando ne incontrerò di meravigliosi altri: le stronzate che con gli amici uno fa nella propria città hanno una luminosità diversa, sono "sovraesposte", come quei piattini di tramezzini che ti mettono davanti al bar, improvvisamente, proprio un attimo dopo che ti sei accorto di aver fame: sono solo tramezzini stantii ma, oddio, quanto sanno di buono, soprattutto alle sette di sera. Può succedere: sono gradi diversi di una stessa bellezza. "Nothingman" dei Pearl Jam io non me la riesco più ad ascoltare senza la voce di Hank Moody sotto che recita la lettera a Karen: è la stessa identica canzone, certo, ma in quella puntata di "Californication", non lo so, mi sembra tutta un'altra cosa. Una vacanza è sempre una vacanza, come una pipa è una pipa: ci saranno sorrisi e persone incredibili che io non ho fatto nulla per meritarmi, a parte aver tagliato per primo il traguardo in quella corsa lì, quella che tutti facciamo all'inizio di ogni cosa, nell'utero materno, ed essermi così ritrovato vivo. Prima di una partenza - è il modo in cui sono fatto - io penso sempre al ritorno, perché tornare è tutto: se io non intravedo la fine, non mi godo il viaggio. Forse è l'insicurezza dell'esistere, non lo so. Vado, per davvero, non mi capitava da tre estati di farmi una vacanza e pure questa è una specie di pagina che si fa voltare: mi mancherà perfino il traffico di Corso Francia, i lavori perpetui di Via Pinciana, mi mancherà infilarmi senza preavviso nella libreria Pallotta, a Ponte Milvio, e trovarci dentro Carmelo che mi offre una birra, mi mancherà la luce arancione, che c'è solo a Roma, solo a Roma c'è di un arancione così, che filtra tra i rami di Villa Borghese. C'è una Panchina Perfetta, a Villa Borghese, non so se lo sapete, in cui ci si può sedere con la Persona Perfetta per ritagliarsi un rettangolo di esistenza della grandezza di un centrotavola: c'è una Panchina Perfetta, illuminata da questo sole grandioso, che si può trovare soltanto in un modo: indicandola col dito e poi andandoci. Preferendola ad altre. Come quasi tutte le cose di questa vita. Non è mai più complicato di così.

Infedelmente vostro,
Stefano Sgambati

[pubblicato il 3 agosto 2011]

Fare parte.

Siccome è estate, allora tutti dicono che piove. Perché quando piove di inverno, nessuno lo dice. La pioggia estiva ti sorprende, non c'è niente da fare: è una puttana consumata che chiude le gambe. Siccome è estate e piove, allora tutti lo dicono. Altrimenti nessuno lo racconterebbe. Va bene così, secondo me: questo fatto che siamo tutti esseri umani, a me mi piace. Mi fa sentire bene, al sicuro, al caldo. Non è mica roba da niente in questo mondo qui, sentirsi al sicuro. Non ho niente contro gli altri esseri umani: avverto intorno a me questa grandiosa moda di sparare a zero su tutti, perché nessuno è come noi, nessuno è alla nostra altezza, secondo il nostro medesimo parere, e perciò bum, bam, vaffanculo, morite tutti. Ma che ci stiamo a fare, allora, qua sopra? Su questo sasso che è il mondo? Se continuamente ci sembra di essere gli unici umani viventi possibili, allora che ci stiamo a fare? Ecco quello che sto facendo, mentre la pioggia cade: scrivo, ascolto l'ultimo album di Pat Metheny e bevo un Gewurztraminer di un'ottima cantina. Tutta roba umana, non so se mi spiego. Va bene, di sicuro su Plutone hanno costruito astronavi che se dici un comando preciso al computer di bordo ti ritrovi proiettato improvvisamente a Las Vegas e sei James Dean. Non ho dubbi: su Venere c'è un pulsante rosso, gigantesco, dieci metri per tre, che servono trenta venusiani per premerlo, capace di farti percorrere centomila chilometri in un secondo, se solo lo sfiori. Non ci credete? Andateci. A proposito di Marte: pare che laggiù abbiano inventato dei pigiami che basta indossarli per cadere addormentati all'istante. Santo cielo, pagherei oro per possederne uno! Mercurio: vendono penne incredibili che tu le impugni e cominci a scrivere quello che devi scrivere partendo dalla fine. Giuro, sono utili. Gira voce che su Giove vi siano donne incomprabili che sanno praticare un sesso incredibile, assurdo, talmente perfetto che al posto dell'orgasmo estinguono mutui. Per non parlare di Urano: laggiù esiste un santone ricercatissimo perché con la sola imposizione delle mani è capace di trasformare le allergie in contratti a tempo indeterminato. C'è uno spazio immenso, un altrove e un quando impossibili da definire per quanto sono vasti, solo che io adesso sono qui, e anche voi, e quello che abbiamo è questo, non c'è altro, almeno per il momento: c'è un grande acquazzone, proprio adesso, e Pat Metheny si è trasformato in Ben Harper e il Gewurztraminer si è abbassato di cinque dita e voialtri, sui vostri social network, avete ancora una volta parlato della pioggia e del freddo che non dovrebbe fare, perché è estate, e vi state lamentando perché stasera non siete potuti andare in discoteca e perché oggi pomeriggio avete dovuto rinunciare al mare. Dopo tutto è quasi agosto. Forse potreste annoiarmi, soprattutto se penso che su Nettuno hanno costruito un marchingegno pazzesco che se clicchi su "on" ti svuota la testa di cattivi pensieri come si fa con la cache di Internet, ma invece non mi annoiate manco per niente. Trovo, anzi, incredibile, rivoluzionario, nuovo, rendermi conto che faccio parte di un agglomerato di individui capaci ancora, ogni tanto, di provare sentimenti banalissimi davanti a una pioggia fuori contesto. Che sarà mai? Siamo rimasti quasi tutti a casa, aspettando il sereno, ci siamo messi ad ascoltare le nostre canzoni preferite e a bere le bottiglie migliori. Ci siamo riuniti a cena a casa di amici e abbiamo cucinato prestando una cura maggiore rispetto alla settimana scorsa. Non abbiamo fatto altro, per una sera, che aspettare domani. Non sarà come azionare una leva e ritrovarsi capaci di trasformare le salite in discese, ma è quanto abbiamo. Mi piace, dopotutto, far parte di voi, questo volevo dire.

[pubblicato il 28 luglio 2011]

mercoledì 27 luglio 2011

2 novembre '75.

Scusate l’italiano, ma adesso vi racconto come posso di quando che ho capito che Pino la Rana c’aveva più cazzo che cervello.

Se ne stava a fissare ‘sto Frocio con quei suoi occhi fuori dalle orbite: non era la prima volta che lo vedevamo da‘ste parti, il Frocio: era proprio frocio. Frocio come dovrebbe essere un frocio. Frocissimo, mentre usciva da quella macchina costosa e s’avvicinava a curiosare: c’aveva sul naso l’occhiali da sole pure se era passata mezzanotte. Noi ci stavamo affà una birra in attesa del prossimo che s’era svegliato co’ la fregola: Pino se li beccava tutti lui, chissà che ci trovavano, con quell’occhi a palla.
“A Ranocchia!”, gli urlavamo spesso e volentieri: “A Ranocchia, ma che c’avrai in mezzo a quelle gambe!”, così gli dicevamo quando lo vedevamo mezzo fuori e mezzo dentro n’altra macchina che se lo voleva caricare.

Noi eravamo quelli di Piazza de’ Cinquecento, anche se mamma non ce lo sapeva: le mamme nostre erano persone tristi che sbucciavano i fagiolini e facevano finta di non capirci niente della vita come andava. La mattina, quando che rientravo, la mia la trovavo sempre con la tazza del caffè che fumava per le mani. Le dicevo: “A ma’, ma che c’avrai da fa’ a st’ora der mattino?”. Mamma mia mi guardava come se quel caffè era troppo caldo o troppo freddo: “Che c’avrai tu da fa’ fino a quest’ora, figlio mio...”, così mi diceva mamma e io avrei voluto incrociare le mani su quella tovaglia disegnata con la frutta, le pere e le mele e le ciliegie, per dirle, a mamma mia, tutta la verità, le avrei voluto dire che Ranocchia c’aveva qualcosa in mezzo a quelle gambe che se ce l’avevo io, a quest’ora altro che i buffi con l’amministratore: ai Fori Imperiali stavamo ad abitare. Faceva un freddo quella notte. Quando che sentivo freddo, come niente, mi mettevo a pensare a mamma mia: giusto qualche giorno prima stavamo là allo stesso posto a sentire per la radio la notizia di un tizio americano che aveva scoperto una galassia nuova nuova. Io le cose non me le ricordavo mai ma Pino che era uno con la capoccia diceva che ‘sta galassia stava lontana 55mila anni luce.
“A Ranocchia”, gli domandai a Pino quella volta: “Ma me dici noi co’ ‘na galassia lontana tutti ‘st’anni luce che ce dovemo fa’?”.
Ranocchia mi guardò, con la birra in mano e quella cosa tra le gambe che magari ce l’avevo io, e mi rispose così, preciso: “Ce famo, ce famo...”. Certe volte a Ranocchia non lo capivo mica.

Comunque, ritornando a noi, è arrivato ‘sto frocio, che era proprio frocio, e com’è come non è, s’è messo a chiacchierare con Pino. Si vedeva che a Ranocchia gli piaceva il fatto: tutto che girava intorno a quella macchina bella, a fare il gran protagonista. Noi ce ne stavamo là al freddo di novembre a passarci le birre da una mano all’altra per non farci congelare le dita. Ogni volta che una macchina arrivava e rallentava noi ci facevamo un poco poco avanti e ci mettevamo in posizione, per vedere se caso mai era qualcuno che c’aveva ancora qualche sfizio da levarsi.
A un certo punto Pino è tornato da noi sul marciapiede: “A rigà”, c’ha detto, pareva un ragazzino, “A rigà, questo è uno famoso, venite a vedè!”. Allorché ci siamo avvicinati, coi nostri grugni del cazzo, coi menti un po’ sollevati verso l’alto, da spavaldi, i pacchi puntati come spade dei pirati pronti all’arrembaggio. Il Frocio s’è un po’ staccato dalla macchina, senza spegnere il motore, e c’ha guardato.
“A ragà,questo è uno coi controcazzi, sentite come parla. Dice che scrive, dice fa il regista, ma che ne so, io non l’ho mai sentito, ma che voi lo conoscete?”.
“A Rano’, se nun l’hai mai sentito te, figuramose noantri”.

Il Frocio ci guardava: a me non è che mi faceva tutta st’impressione. Se ne stava là con quegli occhiali del cazzo come se era mezzogiorno, la camicia costosa e scarpe belle. Ecco uno che non si doveva vergognare di tornare a casa tanto tardi: la madre di uno così, quando uno così si ritirava, stai sicuro che s’era addormita, mica era sveglia con la tazza del caffè sulla tovaglia.

“E di che quartiere siete voialtri?”, c’ha chiesto il Frocio a un certo punto con una voce strana e un accento che di sicuro non era romanesco. Nessuno gli ha risposto: oltre a quello di Pino era meglio se s’imparava a farsi pure i cazzi suoi. Mi stava montando una rabbia: una fame.
“Dice che magari potemo tutti annà da lui, più tardi, ci caliamo un par de chili de pasta e ci sturiamo er vino”, ha fatto Ranocchia che improvvisamente la sapeva lunga.
“Vabbè...”, gli ho fatto io, così, tanto per coprire il rumore del mio stomaco. Il Frocio s’è avviato in macchina a dare due sgasate.
Pino m’ha preso sottobraccio e ha detto: “Daie che stasera torni da tu’ madre co’ la panza piena grazie a Ranocchia tuo”.
Me lo sono guardato: “Vabbè...”, gli ho risposto un’altra volta, soffiandomi un po’ di fiato nelle mani chiuse a pugno.
Il fatto è che ormai m’era presa a male: quel frocio brutto, secco secco, dentro la macchina dei sogni. Ma ‘ndo cazzo stava scritto che lui sì e noi no? Fa il regista. Scrive: ma di che? E perché, non ce lo posso essere pure io “uno famoso”, per portarci mamma al mare a Ostia col vento nei capelli, invece che vederla sempre a quel tavolo con le mele e le ciliegie?

Ho messo una mano sulla spalla de Ranocchia: “Senti, a Pino...”.
“Eh?”, m’ha detto lui, mezzo scoglionato, con quel coso tra le gambe che magari ce l’avevo io.
Gli volevo dire di non andarci, che non mi sembrava giusto. Invece gli ho fatto: “Ma perché sono sempre gli altri a scoprire le galassie lontanissime?”. Quello m’ha fissato, con un piede già dentro la macchina del suo amichetto nuovo, senza dire “a”. Poi ha alzato le spalle, s’è infilato dentro e ha chiuso la portiera.
Ecco come m’è diventato chiaro che Ranocchia, in fondo in fondo, non era mica ‘sta gran cima.

venerdì 22 luglio 2011

Oggi.

Malinconiche slave appassionate di mercimonio del corpo ostentano i doni di Madre Natura nel solleone della Via Aurelia. Automobili guidate da cattolici praticanti rallentano nei loro paraggi per un insolito ribollire di Spirito Santo: qualcuno, più tardi, alla moglie dirà buona la cena, tutto bene al lavoro? Davanti al tg farà no con la testa, perché il politico all'opposizione è stato beccato con la stagista.

martedì 19 luglio 2011

Asterisco.

Ti rivedrò in un altro futuro e un altro tempo, quando le macchine correranno a tre centimetri da terra e il traffico sarà una parola antica sulle labbra dei più vecchi: qui una volta era tutta lamiera, si diranno, e i più giovani stenteranno a credere, abituati come saranno a questi nuovi grandi spazi aperti. Sarai bionda ancora e ancora amerai ostentare quei sorrisi trattenuti, come dentifricio spremuto con fatica indicibile da un tubo piatto come ostia.
Ti rivedrò al "solito posto" e commenteremo qualcosa a proposito dei vecchi tempi. Le mode degli altri ci faranno sparlare e ogni tanto diremo quelle cose tipiche che cominciano con "ti ricordi quando?". Un sacco di attori famosi oggi saranno morti in quel futuro.
Avremo modo di camminare e io rallenterò il passo perché ti vorrò guardare da dietro: riscoprirò quella falcata decisa che mi aveva fatto innamorare e ti raggiungerò con due salti goffi per prenderti sottobraccio e dirti: "Ehi, non sei cambiata".
Sarà a quel punto che ti fermerai con un'aria da rimprovero: "Non hai smesso mai di corteggiarmi...", dirai e io ti dirò di sì, ammetterò le mie colpe, perché finalmente ne avrò il coraggio, mi sentirò sereno, non avrò paura di ustionarmi o scorticarmi.
"Sì", ti dirò, "Corteggiarti è la cosa che mi ha fatto più sentire bene quando un nonnulla mi faceva stare male".
"Eccolo qua", dirai tu, perché, davvero, non sarai cambiata, "Eccolo qua che esce fuori lo scrittore...".
Riprenderemo a camminare, sarà una serata di primavera e finalmente la temperatura rasenterà la perfezione: "Io non sono uno scrittore", ti risponderò e tu mi farai quella faccia lì e io mi ricorderò improvvisamente di quando bevemmo grappa nella tua macchina, passandoci la bottiglia.
"Ma quando? Non è vero!", mi dirai, rincoglionita che non sarai altro, e allora dovrò insistere, tracciarti il ricordo nel cervello come uno di quei disegni che si fanno sulla sabbia con un ramo secco: ti sbatterai una mano sulla fronte quando saremo già seduti e ti ricorderai improvvisamente.
I camerieri ci daranno del "lei" e questo sarà un altro argomento di conversazione.
"Una volta qui bevemmo una bottiglia intera e poi tu avesti l'ardire di ordinare altre due grappe".
Non negherai, ma guarderai il tavolo e dirai: "Abbassa la voce!". Sarà allora che ti riconoscerò definitivamente e abbasserò le difese, non la voce, ritrovandoti del tutto.
"La solita alcolizzata...", ti farò, dandoti un colpetto sulla mano: a questo punto risucchierai tutta l'aria disponibile, per indignazione, e sbotterai in qualche altro dei tuoi modi canonici da bionda. Non riconosceremo i menu, perché il tempo è questo che fa alle cose: le trascina avanti fermandoci al chiodo. Rimanderemo indietro il cameriere un paio di volte, sotto i colpi della nostra indecisione, ma alla fine ci sarà un'ordinazione, in barba alla mia colite nervosa e alla tua cellulite (ebbene sì, colpirà anche te): un'altra bottiglia come si deve e buonanotte. Ci sarà un cestello con il ghiaccio al nostro tavolo, solo che le tecnologie saranno cambiate e il ghiaccio sarà artificiale e il freddo un'illusione. Le etichette sulle bottiglie saranno al neon e in giro, per quella piazza, sarà tutto in andirivieni artificiale tipo capodanno in riva al mare. Altre due cose che non avremo mai fatto in tempo a fare: capodanno e rive di mare. Troverò ancora modo di essere geloso, accarezzandomi il pizzetto bianco, e ti guarderò per quel secondo in più del necessario, ben sapendo che tutte quelle briciole che facevamo al tempo, adesso si sono già depositate.

sabato 16 luglio 2011

Quando eravamo Re.

Ai primissimi posti, tra le fatiche più estenuanti per l’essere umano, insieme al trasloco e al divorzio, c’è sicuramente lo sforzo che si deve fare per mettere via una delusione. Le delusioni sono caramelle gommose che si trasformano argutamente in aghi subito prima di scendere per la gola: non l’avresti mai detto, guardandole, oppure assaporandole nei primissimi momenti, che sarebbero state capaci di tanto dolore, fastidio. Le delusioni sono stanze che si arredano da sole e i mobili non c’è verso di sistemarli in un altro modo: l’unica cosa da fare è abituarsi alla disposizione. Farsela andare bene.
Uno prima o poi, col tempo, ci riesce. Nessuno è mai morto per una stanza arredata male, va bene, si resta vivi, e questa è una buona morale, confortante, però, oddio, certe volte non è facile lo stesso. Soprattutto quando devi spiegare a qualcuno che del calcio non gliene frega niente che le tue gioie più forti e i ricordi più vividi e belli sono legati proprio al pallone. Càpita che ti guardino come si guardano i matti. Per questo, quando ho letto che il mio Giocatore Preferito s’era macchiato di un Peccato Osceno, ho subito capito che cercare di spiegare agli altri il senso profondo di questo dolore sarebbe stato impossibile. Il fatto è che amare il calcio è come essere vegetariani o astemi: la gente ti guarda e non capisce perché lo fai. Prova a demolirti riducendo tutto a se stessa: come puoi non mangiare la pancetta? Come puoi non amare il vino? Perché stravedere per 11 uomini in mutande?

Mi raccomando, giugno.

Percorrete Via delle Quattro Fontane, in salita, provenendo da Piazza Barberini, e poi, proprio quando arrivate all'incrocio con Via XX Settembre, ecco, voltatevi! Deve essere una giornata serena, deve essere giugno, devono essere le sette di sera: giratevi e fate il percorso alla rovescia, in discesa dunque. Guardate avanti, che spettacolo: questa è Roma. Sì, è vero, nel frattempo, alla vostra sinistra, ci sarà una lunga fila di macchine incolonnate e la gente dai finestrini farà penzolare le sigarette: ma voi guardate avanti, camminate, non badateci. Vedrete tutta Via delle Quattro Fontane, in un'unica botta prospettica, luuuunga, dritta, meravigliosa, congiungersi senza soluzione di continuità con Via Sistina, e, in fondo a tutto, che vi sembrerà vicinissimo, e invece sono quasi due chilometri, l'Obelisco Sallustiano di Piazza Trinità dei Monti su cui batte ancora forte il sole del tramonto. Fatelo. Andateci. Via delle Quattro Fontane, Via XX Settembre e poi, puf, voltatevi! Se siete niente di più originale di un essere umano, se siete proprio come me, dunque, allora non importerà quanti e quali saranno i pensieri che avrete nella testa, i problemi, le delusioni, i tormenti. Davvero, non importerà: comincerete a camminare, con gli occhi ricolmi di quell'Obelisco indorato di ultimo sole (mi raccomando: giugno, sette di sera) e, niente, semplicemente vi direte che va bene così.

Anno 2020

Introdotta sul mercato la Pillola dell'anno prima: assumerla riporta tutte le cose com'erano 12 mesi fa. Il Talento viene dichiarato illegale. Possederne fino a una certa soglia è proibito: appositi funzionari statali procedono porta a porta con un rilevatore. Chi risulta sopra la soglia del 63% viene detalentizzato e assunto all'anagrafe a tempo indeterminato. Abolito il giovedì. Un sondaggio rileva che il 73% delle donne preferisce praticare sesso a pagamento (cioè venendo pagata). I tulipani sono il fiore più regalato. Viene proibito dare da mangiare agli assassini: tuttavia rimane possibile accarezzarli, ma solo se il guardiano dello zoo è già passato con l'anestetico. Cinque terrestri su sette posseggono un account su Facebook: sette su sette posseggono un Suv. Ritorna in auge la mezza stagione, ma le ferie non sono più pagate. Abolizione della legge di gravità: si può volteggiare liberamente, a patto di rispettare la distanza di sicurezza. Il 63% dei giovani dichiara di aver perso la verginità prima dei sei anni. Introdotto il concetto di "contentazione": chi non dispone di mezzi sufficienti per vivere dignitosamente dovrà seguire obbligatoriamente dei corsi che gli insegnino ad accontentarsi di ciò che possiede. Superato il concetto delle 24 ore: introdotti sul mercato i primi orologi incapaci di segnare l'ora giusta. Nel calcio viene abolito il "fallo da rigore" per un principio nuovo di democrazia. Il Papa nega l'esistenza della carta di credito. Introdotta nella scuola superiore la frequentazione obbligatoria di Corsi di Intelligenza (almeno tre ore settimanali). L'Organizzazione Mondiale della Sanità approva le trasfusioni di anima per i poveri di spirito. Introdotti i primi clacson ad ultrasuoni: i più costosi possono fare esplodere il cervello di chi non parte immediatamente al verde. Nichi Vendola propone di abolire le parole "mammuth", "cordless" e "parterre". Teorizzata l'esistenza di un sesto senso umano: l'ignoranza. In Giappone vengono testate le prime pillole a lento rilascio di ironia. Google vara la sua nuova applicazione per Smartphone capace di ridurre i sensi di colpa. Il primo navigatore satellitare "Maometto" riscuote un grande successo di vendite: non porta te alla destinazione, ma la destinazione da te. I tramezzini non vengono più privati dei bordi, ma i bordi vengono privati dei tramezzini per un nuovo e sano regime dietetico nazionale. Proibito rivangare il passato. Consentito prevedere il futuro. Panico mondiale per la diffusione di una malattia contagiosa che impedisce alle persone di essere maleducate. Una ricerca scientifica americana indispone il governo ma non si capisce perché. La Calabria e la Sicilia vengono finalmente unite da un filo logico. Grossi cambiamenti per il Natale: verrà celebrato ogni quattro anni e ogni volta in una città diversa. Il 12 giugno, in una clamorosa conferenza stampa internazionale, un uomo sull'ottantina dichiara di essere Jim Morrison. Alla falsa notizia viene dato talmente tanto credito da fare uscire allo scoperto il vero Jim Morrison, un uomo sull'ottantina noto per il suo orgoglio. Pubblicato il nuovo singolo dei Doors, una cover di "Strange Days". Il Premio Strega viene assegnato per la prima volta con il televoto.

[continua?]

giovedì 2 giugno 2011

Siamo solo persone.

I fuochi d'artificio non mi piacciono e sono tristi da guardare ma fanno succedere una cosa: riportano gli umani alla condizione di viventi. Ieri sera, guidando, sono incappato nel solito show pirotecnico che una nota scuola privata di zona organizza ogni 1 giugno: ho visto persone alle finestre, appollaiate come per gli ultimi saluti dalla poppa di una nave, e alla fermata del 446 due signore filippine fotografavano coi cellulari senza interrompere la conversazione. Le macchine andavano pianissimo e qualcuna stava ferma con le quattro frecce: certi avevano lasciato il motore acceso e guardavano in alto appoggiati al cofano col culo. Al ristorante "I Cocomerini" gli uomini e le donne finivano di masticare in piedi, oppure bevevano con gli occhi fuori dal bicchiere. Improvvisamente tutti quanti erano solo persone. Solo persone. Io mi sono messo a pensare ai miei amici, a quelli che avrei visto da lì a poco e a quelli che sono lontani, e anche loro, improvvisamente, mi sono sembrate solo persone. Siamo solo persone, ed veramente tutto così semplice, a volte.

venerdì 27 maggio 2011

Non mi dissocio.

[scritto e pubblicato il 15 dicembre 2009]

Mi chiamo Stefano Sgambati e non mi dissocio dall'atto violento perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalla retorica ipocrita di questi giorni, questo sì, espressa unitamente dalla sinistra e dalla destra, nell'ambito di un'orgia benpensante di solidarietà pret à porter nei confronti del presidente del consiglio, UNICO responsabile del clima di violenza imperante in questo momento nel nostro Paese.

Mi chiamo Stefano Sgambati, sono un cittadino italiano e mi dissocio da Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalla pasta scotta, dalle canzoni di Tiziano Ferro ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni del nostro presidente del consiglio. Mi dissocio dai libri di Moccia, dai film di Vanzina e da Maria De Filippi. Mi dissocio dalle donne che usano solo ballerine, mi dissocio dai jeans a vita alta, dalla pioggia e dall'inverno. Mi dissocio da Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e Maurizio Gasparri, ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi: mi chiamo Stefano Sgambati e questo non fa di me un violento, ma un cittadino libero e scevro da condizionamenti. Mi dissocio da Maroni, da Bonaiuti e da Italy's Got Talent. Mi dissocio dal conflitto d'interessi, dallo scudo fiscale, dalla frode e dall'inganno. Mi dissocio dal falso in bilancio, dalle infiltrazioni mafiose e dai respingimenti nei confronti degli immigrati. Mi dissocio da chi supera in corsia d'emergenza, da chi passa col rosso e da chi suona il clacson un secondo dopo che è diventato verde, ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi: questo non fa di me un violento, caro ministro Maroni, se per caso passi da queste parti a farti i cazzi miei. Mi dissocio dai Tronisti di Maria De Filippi, dal Festival di Sanremo e da X Factor. Mi dissocio dai pantaloni color cachi, dai mocassini e da Federico Zampaglione. Mi dissocio dalle mani fredde, dal mal di testa e dall'insonnia, mi dissocio dal processo breve, dal Lodo Alfano e dalle ronde nere. Mi dissocio da Il Giornale, da Gianfranco Fini e dalle divise violente. Mi chiamo Stefano Sgambati e mi dissocio da tutto questo ma non dall'atto violento perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi. Mi dissocio DA Silvio Berlusconi e dalla sua cricca di cani da riporto, mi dissocio da chi non sa pensare con la propria testa, mi dissocio dagli indifferenti, da Simona Ventura e dai Reality Show. Mi dissocio da Luca Sofri, dall'avvocato Ghedini e da Stefano Accorsi. Mi dissocio dalla Strage di Capaci, da Piazza Fontana, dalla P2, da Licio Gelli e dalla camorra. Mi dissocio dalle stragi di Stato, dai Servizi Segreti deviati e dalle discriminazioni. Mi dissocio dalla sensibilità a cottimo, dalle morti bianche e dai poliziotti che sparano contro gli incensurati, ma non mi dissocio dall'atto di violenza contro Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalle banche, dalle firme che spostano capitali, dai paradisi fiscali, mi dissocio dalla coda alla vaccinara - e questo sì che è anticonformista - mi dissocio dalla frutta e dalla verdura, dall'influenza suina e dai vaccini griffati Dolce & Gabbana. Mi dissocio da Franco Zeffirelli, dalle cover delle canzoni uguali ai pezzi originali, dal sindaco Alemanno e Bruno Vespa. Mi chiamo Stefano Sgambati, sono un cittadino italiano nel pieno delle facoltà mentali e non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni del presidente del consiglio. Mi dissocio dalla panna nella carbonara, da Enrico Papi e dal fascismo. Mi dissocio dagli arbre magique, dai tifosi romanisti che piangono tutte le partite e da quelli juventini che non sanno giocare pulito. Mi dissocio dal trasporto pubblico di Roma, dai tassisti e dai capperi. Mi dissocio da tutto quanto non sia evidentemente intelligente, perché c'è intelligenza anche nel massimo disimpegno. Mi dissocio dalla violenza morale di una menzogna o di una censura, piuttosto che da quella fisica, più pratica e autentica. Mi dissocio dalle gocce di pioggia fredda che cadono precise precise nel colletto della camicia alle otto di sera, mi dissocio dai cani perché preferisco i gatti e mi dissocio dagli animalisti. Mi dissocio dalla ricerca spaziale, dalle industrie farmaceutiche e dalle donne al volante. Mi dissocio dai Suv, da Al Bano Carrisi e dalle multe.

Quel Daniele Pasquini che voleva Ringo Starr.

C’è una cosa che premetto sempre, prima di dare qualsiasi giudizio. E’ questa: io non sono nessuno, non chiedetemi pareri, a meno che non vogliate sapere qualcosa a proposito di Youporn. Sono contrario ai consigli, dati e ricevuti. Alla luce di ciò, mi piacerebbe parlare di un libro che ho da poco finito di leggere e ne vorrei parlare non perché sia un libro particolarmente bello (anche), ma perché è un libro scritto da un giovanissimo, edito da una casa editrice di geni (le parole sono importanti) e questi due elementi, messi insieme, valgono la pena di cinque minuti di lettura.

Il libro in questione si intitola “Io volevo Ringo Starr” (Intermezzi Editore) e l’autore è Daniele Pasquini. Allora, sentite, prima di tutto una cosa: non mi metterò qui a dire che questo libro, scritto da un poco più che ventenne, sia imprescindibile, necessario, urgente o scegliete voi un lemma da quella pozza lessicale insopportabile dove, quasi sempre (stavo per scrivere “spesso e volentieri”, poi ci ho ripensato), sguazzano censori e recensori. “Io volevo Ringo Starr” (da questo momento in avanti “Ringo Starr”) è un gradevole libretto che non cambierà il mondo, né pretende di farlo, e la mia onestà intellettuale preme adesso per dirvi che qualora vi rimanessero, nel borsellino, le ultime due banconote della vostra vita, ebbene, meglio sarebbe se vi compraste un testo qualsiasi di Aldo Busi.

“Ringo Starr”, ecco perché ne sto scrivendo, è un libro che si indirizza un po’ a tutti, ma soprattutto ai giovani: parla di giovani, ma lo fa in modo adulto. Apriti cielo: il libro di Pasquini fa una cosa rivoluzionaria che mi ha fatto aprire gli occhi. Si rivolge a un pubblico giovanile (non per forza giovanile, ma soprattutto giovanile: almeno secondo me) senza trattarlo da perfetto imbecille. Dico: ci voleva tanto? Dentro a “Ringo Starr” c’è un sacco di roba, messa proprio bene, per esempio c’è tanta filosofia, c’è un po’ di matematica, c’è un guazzabuglio d’amore e frustrazione, però quest’amore e questa frustrazione sono trattati senza l’abuso di luoghi comuni. Tanto per dire: un regista acclamato come Ozpetek o uno scrittore di fama mondiale come Paolo Giordano sono soliti trattare queste tematiche - Amore & Frustrazione - circa centomila volte peggio di Pasquini che, udite udite, non inserisce nel suo libro nemmeno un disadattato, nemmeno un frocio, nemmeno una lesbica, nemmeno un autistico e, miracolo!, nemmeno un’anoressica, men che meno una bulimica, niente di niente, giuro che non ci sono storie di disturbi alimentari in questo libro rivolto ai giovani, che parla di giovani, trattando però i giovani da adulti. La storia non ve la dico, perché odio parlare delle trame dei libri: comunque è tutta una specie di metafora musicale e vi dico, senza tema di smentita, che la chiusura del volume vale da sola il fatidico prezzo del biglietto. Pasquini con quel finale lì, che pure non mi era piaciuto prima dell’ultimo, ultimissimo paragrafo, m’ha fregato, m’ha fatto girare pagina convinto che ci fosse ancora almeno un pezzetto da leggere e invece no e questa cosa succede per un motivo ben preciso, precisissimo, studiato, calibrato, che - se amate la lettura e se avete la giusta curiosità che dovrebbe spettare ai vivi - non vi potete perdere. Lo voglio ripetere ancora, l’ho detto all’inizio: Pasquini, esattamente come me, non è Burroughs, non è niente: quelli come noi fanno il piacere all’umanità di lettori di essere onesti e di scrivere da tali, senza prendere per il culo.

giovedì 26 maggio 2011

Ammazzare Aldo Moro oggi.

- ... Il corpo dell'onorevole Aldo Moro lo potete trovare a Via Caetani - ripeto: Via Caetani - nel bagagliaio di una Renault rossa. I primi due numeri di targa sono...
- Ma chi è, scusi?
- Mi sente?
- Sì, ma chi è?
- Brigate Rosse.
- Brigate cosa?
- Rosse.
- Senta, guardi che ha sbagliato.
- Il corpo dell'onorevole Aldo Moro lo potete trov...
- Aridaie. Senta, ma lei chi sta cercando?
- Forse non ci siamo capiti...
- No, è lei che non ha capito, scusi. Lo sa che ore sono?
- Come sarebbe a...
- Ecco, glielo dico io. Sono le 13.45. Lo sa questo che vuol dire?
- Non riesco a...
- Dico: lo sa questo che vuol dire?
- Ma io...
- Io sto mangiando. Ha capito?
- ...
- Sto in pausa pranzo e guardi che ho risposto solo perché pensavo fosse mia moglie, che quella poi chissà che si pensa...
- Qui sono le Brigate Rosse, mi sente?
- Sì e io sono incazzato nero. Come la mettiamo?
- I primi due numeri di targa della Renault rossa sono...
- (fuoricampo) Ma chi è che rompe li cojoni?
- Ma che cazzo ne so, uno che si vede che non je va de magnà.
- (fuoricampo) ... E vabbè, mannalo un po' affanculo!
- Ha sentito il collega che ha detto?
- Senta, forse non ci siamo spiegati. Non posso parlare con un responsabile, per piacere?
- No, ha ragione: nun se semo spiegati. Qui stamo TUTTI a magnà. Se io le chiamo il "responsabile", come dice lei, a me quello me licenzia.
- Io sto chiamando per la questione Aldo Moro.
- E io le sto dicendo che c'ho le tagliatelle ar sugo che me se stanno a freddà.
- Ma il segretario del Partito...
- (fuoricampo) Aho, se sbrigamo o nun se sbrigamo?
- Senta guardi, mi fa il piacere di richiamare dopo le 16 per favore?
- Due ore di pausa pranzo vi prendete?
- Ma anvedi questo... Lei sta parlando con un pubblico ufficiale, forse le è sfuggito il particolare. Come si permette?

***

3) Trilogia su David Foster Wallace - Scarpe

Non riesco a seguire un dibattito, una conversazione, una lettura, è più forte di me, non ci riesco, lo giuro su dio, e questa volta non c’entra il feticismo, la perversione, l’ignominia dei miei sensi e dei miei gusti, ma non ce la faccio, mi distraggo, va a finire che non sento una sola parola di quello che il relatore seduto dietro al tavolo sta dicendo, se gli organizzatori non si sono presi la briga di spicciare su quel tavolo una tovaglia o un telo lungo abbastanza da arrivare a terra, così da coprire, da nascondere alla mia vista, i piedi di quel relatore o di quella relatrice. L’altra sera sono andato a seguire questa serata-evento (evento di che, poi?) in occasione della morte di uno scrittore che mi piace e di cui ho parlato anche troppo e che, dunque, non nominerò mai più, fino al prossimo 12 settembre, organizzata dai “tipi” (si dice così) di Minimum Fax, dei geni dell’editoria che hanno saputo tagliarsi uno spazio incredibile nell’ambiente, nonostante l’oligarchia annientante dei colossi “main stream”.