sabato 16 luglio 2011

Quando eravamo Re.

Ai primissimi posti, tra le fatiche più estenuanti per l’essere umano, insieme al trasloco e al divorzio, c’è sicuramente lo sforzo che si deve fare per mettere via una delusione. Le delusioni sono caramelle gommose che si trasformano argutamente in aghi subito prima di scendere per la gola: non l’avresti mai detto, guardandole, oppure assaporandole nei primissimi momenti, che sarebbero state capaci di tanto dolore, fastidio. Le delusioni sono stanze che si arredano da sole e i mobili non c’è verso di sistemarli in un altro modo: l’unica cosa da fare è abituarsi alla disposizione. Farsela andare bene.
Uno prima o poi, col tempo, ci riesce. Nessuno è mai morto per una stanza arredata male, va bene, si resta vivi, e questa è una buona morale, confortante, però, oddio, certe volte non è facile lo stesso. Soprattutto quando devi spiegare a qualcuno che del calcio non gliene frega niente che le tue gioie più forti e i ricordi più vividi e belli sono legati proprio al pallone. Càpita che ti guardino come si guardano i matti. Per questo, quando ho letto che il mio Giocatore Preferito s’era macchiato di un Peccato Osceno, ho subito capito che cercare di spiegare agli altri il senso profondo di questo dolore sarebbe stato impossibile. Il fatto è che amare il calcio è come essere vegetariani o astemi: la gente ti guarda e non capisce perché lo fai. Prova a demolirti riducendo tutto a se stessa: come puoi non mangiare la pancetta? Come puoi non amare il vino? Perché stravedere per 11 uomini in mutande?


Accettare l’ipotesi che il proprio Giocatore Preferito possa essere fallibile non dovrebbe rientrare nelle capacità di un uomo. Così come non è possibile ingoiare un pugno di aghi, a meno di essere un fachiro. Davvero, prendere una delusione e farne mollica di pane è un esercizio estenuante, peggio di un divorzio o un trasloco. I viventi non lo sanno fare, bisogna accettarlo e andare avanti fino alla prossima brutta notizia.
Il mio Giocatore Preferito arrestato è una cosa inconcepibile, inaccettabile: sinceramente, molto meglio sarebbe stato se fosse morto. È orribile, sul serio, ingiusto, che tutti i piccoli scompartimenti stagni di bellezza che uno si crea siano destinati, pure loro, ad essere inondati da quello che c’è fuori. Mi fa schifo questo meccanismo dell’esistenza: non si salva niente. Mai. Finiamo sempre col ritrovarci per le mani qualcosa che s’è amato tantissimo improvvisamente distrutto, piegato. Non esiste un composto capace di sconfiggere la ruggine della realtà: uno già deve vedersela con la propria morte per tutta la vita, almeno dalle delusioni ci potevano esentare, dico io. Perché le delusioni non si mettono via: ce le dobbiamo tenere.

Vorrei dirgli, al mio Giocatore Preferito, che non me lo doveva fare, che se ti abbracci con Roberto Baggio per terra, sotto 50 gradi di sole, dopo che l’hai mandato in gol contro la Spagna nei Mondiali del ’94, poi ti devi comportare bene. Perché una cosa del genere esige una grande responsabilità. Perché noi eravamo ragazzini e stavamo tutti quanti piegati per terra sulle ginocchia, con le palle secche per la strizza, e le femmine non ci filavano manco di striscio, e l’estate era allo zenit, e c’avevamo da fare ancora tutti i compiti per le vacanze, e la notte filavamo sui motorini senza casco per tornare a casa, e non lo so ma il vento era diverso, e Lionel Messi c’aveva sette anni, ed eravamo in semifinale, porca puttana, e tutto questo adesso chi cazzo ce lo ridà?

Ci dovrebbe essere un numero limite di delusioni possibili in questa vita, ecco tutto: oltre, non si dovrebbe poter andare. Sennò è facile. Sennò vale tutto. Sennò io, da domani, ho tre cazzi e buonanotte.

Il mio Giocatore Preferito.
Se ci penso mi metto a piangere.
Ma da quel 1994 è mai più andato per il verso giusto qualcosa?

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