mercoledì 27 luglio 2011

2 novembre '75.

Scusate l’italiano, ma adesso vi racconto come posso di quando che ho capito che Pino la Rana c’aveva più cazzo che cervello.

Se ne stava a fissare ‘sto Frocio con quei suoi occhi fuori dalle orbite: non era la prima volta che lo vedevamo da‘ste parti, il Frocio: era proprio frocio. Frocio come dovrebbe essere un frocio. Frocissimo, mentre usciva da quella macchina costosa e s’avvicinava a curiosare: c’aveva sul naso l’occhiali da sole pure se era passata mezzanotte. Noi ci stavamo affà una birra in attesa del prossimo che s’era svegliato co’ la fregola: Pino se li beccava tutti lui, chissà che ci trovavano, con quell’occhi a palla.
“A Ranocchia!”, gli urlavamo spesso e volentieri: “A Ranocchia, ma che c’avrai in mezzo a quelle gambe!”, così gli dicevamo quando lo vedevamo mezzo fuori e mezzo dentro n’altra macchina che se lo voleva caricare.

Noi eravamo quelli di Piazza de’ Cinquecento, anche se mamma non ce lo sapeva: le mamme nostre erano persone tristi che sbucciavano i fagiolini e facevano finta di non capirci niente della vita come andava. La mattina, quando che rientravo, la mia la trovavo sempre con la tazza del caffè che fumava per le mani. Le dicevo: “A ma’, ma che c’avrai da fa’ a st’ora der mattino?”. Mamma mia mi guardava come se quel caffè era troppo caldo o troppo freddo: “Che c’avrai tu da fa’ fino a quest’ora, figlio mio...”, così mi diceva mamma e io avrei voluto incrociare le mani su quella tovaglia disegnata con la frutta, le pere e le mele e le ciliegie, per dirle, a mamma mia, tutta la verità, le avrei voluto dire che Ranocchia c’aveva qualcosa in mezzo a quelle gambe che se ce l’avevo io, a quest’ora altro che i buffi con l’amministratore: ai Fori Imperiali stavamo ad abitare. Faceva un freddo quella notte. Quando che sentivo freddo, come niente, mi mettevo a pensare a mamma mia: giusto qualche giorno prima stavamo là allo stesso posto a sentire per la radio la notizia di un tizio americano che aveva scoperto una galassia nuova nuova. Io le cose non me le ricordavo mai ma Pino che era uno con la capoccia diceva che ‘sta galassia stava lontana 55mila anni luce.
“A Ranocchia”, gli domandai a Pino quella volta: “Ma me dici noi co’ ‘na galassia lontana tutti ‘st’anni luce che ce dovemo fa’?”.
Ranocchia mi guardò, con la birra in mano e quella cosa tra le gambe che magari ce l’avevo io, e mi rispose così, preciso: “Ce famo, ce famo...”. Certe volte a Ranocchia non lo capivo mica.

Comunque, ritornando a noi, è arrivato ‘sto frocio, che era proprio frocio, e com’è come non è, s’è messo a chiacchierare con Pino. Si vedeva che a Ranocchia gli piaceva il fatto: tutto che girava intorno a quella macchina bella, a fare il gran protagonista. Noi ce ne stavamo là al freddo di novembre a passarci le birre da una mano all’altra per non farci congelare le dita. Ogni volta che una macchina arrivava e rallentava noi ci facevamo un poco poco avanti e ci mettevamo in posizione, per vedere se caso mai era qualcuno che c’aveva ancora qualche sfizio da levarsi.
A un certo punto Pino è tornato da noi sul marciapiede: “A rigà”, c’ha detto, pareva un ragazzino, “A rigà, questo è uno famoso, venite a vedè!”. Allorché ci siamo avvicinati, coi nostri grugni del cazzo, coi menti un po’ sollevati verso l’alto, da spavaldi, i pacchi puntati come spade dei pirati pronti all’arrembaggio. Il Frocio s’è un po’ staccato dalla macchina, senza spegnere il motore, e c’ha guardato.
“A ragà,questo è uno coi controcazzi, sentite come parla. Dice che scrive, dice fa il regista, ma che ne so, io non l’ho mai sentito, ma che voi lo conoscete?”.
“A Rano’, se nun l’hai mai sentito te, figuramose noantri”.

Il Frocio ci guardava: a me non è che mi faceva tutta st’impressione. Se ne stava là con quegli occhiali del cazzo come se era mezzogiorno, la camicia costosa e scarpe belle. Ecco uno che non si doveva vergognare di tornare a casa tanto tardi: la madre di uno così, quando uno così si ritirava, stai sicuro che s’era addormita, mica era sveglia con la tazza del caffè sulla tovaglia.

“E di che quartiere siete voialtri?”, c’ha chiesto il Frocio a un certo punto con una voce strana e un accento che di sicuro non era romanesco. Nessuno gli ha risposto: oltre a quello di Pino era meglio se s’imparava a farsi pure i cazzi suoi. Mi stava montando una rabbia: una fame.
“Dice che magari potemo tutti annà da lui, più tardi, ci caliamo un par de chili de pasta e ci sturiamo er vino”, ha fatto Ranocchia che improvvisamente la sapeva lunga.
“Vabbè...”, gli ho fatto io, così, tanto per coprire il rumore del mio stomaco. Il Frocio s’è avviato in macchina a dare due sgasate.
Pino m’ha preso sottobraccio e ha detto: “Daie che stasera torni da tu’ madre co’ la panza piena grazie a Ranocchia tuo”.
Me lo sono guardato: “Vabbè...”, gli ho risposto un’altra volta, soffiandomi un po’ di fiato nelle mani chiuse a pugno.
Il fatto è che ormai m’era presa a male: quel frocio brutto, secco secco, dentro la macchina dei sogni. Ma ‘ndo cazzo stava scritto che lui sì e noi no? Fa il regista. Scrive: ma di che? E perché, non ce lo posso essere pure io “uno famoso”, per portarci mamma al mare a Ostia col vento nei capelli, invece che vederla sempre a quel tavolo con le mele e le ciliegie?

Ho messo una mano sulla spalla de Ranocchia: “Senti, a Pino...”.
“Eh?”, m’ha detto lui, mezzo scoglionato, con quel coso tra le gambe che magari ce l’avevo io.
Gli volevo dire di non andarci, che non mi sembrava giusto. Invece gli ho fatto: “Ma perché sono sempre gli altri a scoprire le galassie lontanissime?”. Quello m’ha fissato, con un piede già dentro la macchina del suo amichetto nuovo, senza dire “a”. Poi ha alzato le spalle, s’è infilato dentro e ha chiuso la portiera.
Ecco come m’è diventato chiaro che Ranocchia, in fondo in fondo, non era mica ‘sta gran cima.

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