martedì 3 aprile 2012

I miei status

Ho "varato" una pagina relativa ai miei status di Facebook: vi sto raccogliendo una selezione dei miei status migliori o più commentati o condivisi degli ultimi due anni circa.

La raccolta è in aggiornamento e la potete consultare cliccando qui.

La generazione peggiore.

Quando il contratto non c’è, i topi ballano. Stanno tutti in fila davanti al nuovo Trony di Ponte Milvio, i topi, fanno rumore puntando al formaggio, sgomitano, rosicchiano altri dieci centimetri verso la linea gialla, perché quella è la cosa più vicina alla pensione a cui possono aspirare: è la dignità dell’arrivo, il conseguimento del legittimo risarcimento per tutta quella fatica fatta. D’altra parte si sono presentati lì alle cinque del mattino e quando hanno girato l’angolo si sono accorti di non essere né i primi né i soli. Hanno dormito in macchina, hanno accampato tende, si sono portati i fornelli da campo e sul farsi dell’alba hanno riscaldato fette biscottate col burro: se la meritano la linea gialla, se lo meritano di guardare negli occhi l’addetto alla fila che ne fa entrare due o quattro alla volta. Sono anche loro lavoratori, tutto sommato: devono arrivare a timbrare il cartellino per tempo e devono riuscirci da soli. Non si possono dare il cambio, altrimenti non vale: a uno che ha provato la carta della furbizia hanno urlato tre vaffanculo e hanno rotto gli incisivi centrali. L’addetto alla fila non ha fatto una mossa, salvo alzare un cartello scritto a mano con l’elenco di tutti i prodotti in esaurimento: loro non sono pagati per provare pietà. “Tanto io mi faccio dare un finanziamento quando mi pare!”, zufola nel suo diastema dentale nuovo di zecca il malcapitato, mentre le risate si alzano più veloci e prorompenti di un’erezione da Viagra. Ammiccano agli obiettivi dei fotografi e fanno segno di “vittoria” con l’indice e il medio perché la linea gialla è vicina: sanno a malapena compilare un curriculum in lingua italiana, ma per comparire in una gallery di Repubblica darebbero il fritto; va bene, non conosceranno mai l’effetto di una tredicesima in busta paga, ma di quello non hanno responsabilità, perché la responsabilità è del governo e dei politici brutti e cattivi, invece se finiscono gli iPhone 4 prima del tempo, con quale cazzo di faccia si ripresenteranno a casa? Ai figli come lo spiegheranno?

Sono la peggiore generazione della storia recente, si vestono male e mangiano peggio, non hanno spirito critico, venerano Roberto Saviano e respingono Aldo Busi, perché i narcotici sono meglio dei froci, leggono “Internazionale” perché vogliono farsi un’idea del mondo che conta e sono cattolici praticanti perché Dio è meglio di niente, poi aspettano la notte e sgattaiolano fuori dal letto, si portano con l’auto lungo la via Salaria per un ribollire di Spirito Santo: l’indomani qualcuno alla moglie dirà buona la cena, ti stanno bene i capelli, e davanti al tg farà segno di no con la testa, perché il politico all’opposizione è stato beccato con la stagista. Hanno lavorato quaranta minuti in vita loro e si sono presi pure il lusso di arrivare in ritardo: eccola qui, la generazione più povera e frustrata di sempre. Rivendicano diritti da tutte le parti e se la prendono col controllore dell’autobus quando vengono sorpresi senza biglietto, però i cinquanta euro per un pompino li trovano sempre. Piove, governo ladro, sussurrano mentre guardano con un’invidia ancestrale chi sta uscendo dall’edificio con le buste piene e i telefonini tenuti tra il mento e la spalla: “Ce l’ho fatta, amore! Sì, l’ho già attivato! Funziona, torno a casa!”, li sentono dire. Sulle teste si riversano mantelle colorate come punte di pastelli e il ticchettio degli sms viene sostituito da quello delle gocce di pioggia: in realtà non è nemmeno giusto parlare di “casa”. Sono stanze affittate che condividono con coetanei fuori corso, cioè il massimo che si sono riusciti a permettere per offrire un loculo degno all’iMac comprato l’anno prima all’inaugurazione di Euronics (facevano tre euro di sconto per ogni mille ben spesi). Dopo cena rovistano con le dita dentro vecchie confezioni di latta “Fisherman’s Friend” e col contenuto modificano sigarette: d’altra parte devono reagire in qualche modo all’aumento dell’iva e se la droga non è tassata mica la colpa è la loro. 

L’addetto alla fila non muta espressione mentre i più stanchi chiedono pietà con la piegatura degli occhi: ostentano compagne incinte e osteoporosi. Qualcuno ha seguito un corso per corrispondenza per imparare a zoppicare. Quando anche i televisori LED ultrascontati vengono dichiarati esauriti si solleva un moto di pena che fa tremare l’asfalto. Si sente urlare vergogna e un lancio di oggetti si sostituisce alla pioggia: c’è chi parla di raccomandazioni, di soliti noti, di conventicola, di cricca. Ci si insulta a vicenda, seppure a debita distanza: si accusano i giornalisti di non esserci mai quando ce n’è veramente bisogno. Improvvisamente si scoprono di un umore talmente nero che nemmeno Fiorello li farebbe più ridere. Cercano una frase di Proust che descriva bene la situazione, ma hanno lasciato troppo presto l’università e comunque ai classici preferiscono l’ultimo di Ammaniti. Gli smartphone in comodato d’uso si fanno roventi mentre i più pronti aggiornano i loro status su Facebook: vogliono ottenere un riscontro al loro dissenso, ma sono solo le undici di mattina e tutto il resto dei loro contatti sta lavorando.

[pubblicato originariamente 
sulle pagine della rivista letteraria "Doppiozero"]

Spleen-der.

Ci dicevano che eravamo dei perdigiorno, dei falliti, dei nullafacenti, poi lo hanno fatto tutti, poi sonoarrivati tutti. Ci dicevano che non stava bene, che non serviva a niente, che era tempo perso: ci dicevano che meglio avremmo fatto a trovarci un lavoro, ma adesso quanti sono quelli che il lavoro lo hanno trovato proprio così? Ci dicevano che non significava un cazzo, che non avrebbe funzionato, che non ci avrebbe portato da nessuna parte. Eravamo tizi che mai avevano pensato di avere qualcosa da dire di interessante e, effettivamente, la maggior parte non ce l’aveva: erano loro quelli che passavano in quattro e quattr’otto dall’altra parte del fronte, andando a rinfoltire la schiera di quelli che scuotevano la testa e dicevano quello che dicevano.

Per esempio che eravamo arroganti, sbruffoni, pieni di ego. Ci dicevano che eravamo un cattivo esempio, ci davano dei “comunisti”, ci davano dei “fascisti”, mentre noi ci davamo di gomito, oppure lo alzavamo troppo e quell’eccesso riverberava l’indomani nella data dell’ultimo post, rimasta al giorno prima. In fondo eravamo giovani, eravamo “blogger”, una parola rotonda che non voleva mai stare ferma: ce la prendevamo col piano su cui poggiava, dicevamo che era in discesa oppure in salita, invece la colpa era proprio di quella parola, “blogger” che, come tutti i significati malleabilissimi in via di definizione, si adattava alle mani di chi la adoperava per primo con effetti lisergici. Eravamo “blogger”, un termine che faceva sorridere i retrogradi: eravamo orecchie e occhi, ci piaceva guardare più attentamente tutte le cose, perché poi ne volevamo, ne dovevamo scrivere. Abbiamo acuminato lo sguardo, ci siamo rinvigoriti i sensi: ecco cos’è stato il motivo di tutto quello scrivere e scrivere e scrivere. Siamo cresciuti così, provando a porre problemi, anziché risolverli, l’unico modo che io ho sempre trovato degno di affrontare intellettualmente questa vita. Ci hanno citato i Wu Ming, ci ha citato Saviano: alcuni di noi sono finiti in televisione e oggi collaborano con la Dandini, altri sono morti e quell’ultimo post è rimasto sempre uguale. Ci dicevano che non saremmo mai andati da nessuna parte e in effetti avevano ragione, ma almeno così abbiamo risparmiato le scarpe e conservato il fiato. I telegiornali parlavano di noi, con quei puntuali mesi di ritardo con cui i “media tradizionali” (una locuzione, oggi abusata, che germogliò proprio in quegli anni, quando noi, noi noi, offrimmo finalmente un’alternativa): dicevano che eravamo ormai un nucleo di informazione capace di spostare le opinioni. Sono arrivati, via via, i politici, i presentatori televisivi, gli attori, i beniamini del calcio: gente miliardaria con uno staff alle spalle grande così, che arrivava dopo di noi. Un senatore nero è diventato presidente degli Stati Uniti così facendo, altri si sono rovinati e sono incappati in qualcosa peggiore della morte fisica, organica, cioè quella pubblica, telematica, la morte che non conosce indulto, che non conosce riconsiderazione, che non fa dire agli altri "era una così bella persona".

Ci puntavano il dito perché ci nascondevamo dietro i nickname e non si sapeva mai se quella che teneva il blog erotico era effettivamente una fica oppure no. C’era questa grande incertezza nei confronti di tutte le cose e noi la combattevamo scrivendo, combattevamo l’ansia dell’eternità con la certezza della condivisione: ancora oggi credo che fosse tutto lì e che sia ancora tutto lì, quando quello che facciamo adesso è sempre la stessa cosa, anche se sono cambiati usi e nomenclatura e se i nomi e i cognomi si sono sostituiti a quei richiami di fantasia che, già di per sé, rivelavano passioni e abitudini, ironie e debolezze. Abbiamo fatto amicizia, ci siamo conosciuti, abbiamo litigato, a un certo punto non ci siamo più trovati e le pagine bianche che ristagneranno da domani, al posto di quelle home page piene di anima di ieri, siamo noi, noi che dovevamo essere i perdigiorno, i falliti, gli invasati-sempre-davanti-al-computer e che invece ci siamo ritrovati ad essere i padroni di casa, quelli che hanno aperto la porta ai primi arrivati e che adesso raccolgono tutti i bicchieri abbandonati sui pavimenti e dànno un’ultima occhiata nostalgica a quei nomi scritti sopra coi pennarelli - stefano havana, moblife, andycapp, vicerey, johnnydurelli, trentamarlboro, eiochemipensavo, ombresovrapposte, personalitàconfusa, parmachiara, indignato, marcusdaly, noitrentenni, ataru, noantri - prima di infilarli nei grandi sacchi neri della monnezza e cambiare argomento.

Episodi di autocannibalismo assortiti.

“In uno dei vagoni di terza classe fin dall’alba si erano ritrovati seduti, l’uno di fronte all’altro, accanto al finestrino, due passeggeri entrambi giovani, entrambi quasi senza bagaglio, vestiti senza eleganza, con delle fisionomie piuttosto notevoli ed entrambi, infine, desiderosi di attaccar discorso. Se ognuno dei due avesse saputo che cosa proprio in quel momento li rendeva reciprocamente interessanti, certo si sarebbero entrambi meravigliati dello strano caso che li aveva fatti incontrare, seduti l’uno di fronte all’altro, in un vagone del treno Varsavia-Pietroburgo”. [F. Dostoevskij - L’Idiota] 
L’insistenza con cui questo tizio sta provando a far sentire all’intero vagone che l’albergo destinato ad ospitare lui e i suoi amici è sito in zona Piazza Affari, cioè a Via Borromei 5, e che loro stessi, questi quattro ragazzi romani rumorosissimi, sono inviati a Milano pagati dalla fantomatica azienda per cui lavorano, la cui identità è naturalmente rimasta segreta al gentile pubblico per un lasso di tempo pari a cinque o sei minuti (una nota casa di produzione televisiva), è commovente. Non fosse che avrei voglia di ammazzarlo mi alzerei per chiedergli un autografo. La gente vuole farsi vedere, la gente esige di manifestare al prossimo una condizione che ritiene evidentemente privilegiata, la gente esiste solo se c’è una claque, la gente dentro a un treno esprime il peggio di sé, perché il treno, rispetto a un aereo, per esempio, è ancorato a terra, fa meno paura, agevola la conversazione, non soffre di decolli e non soffre di atterraggi, non ha turbolenze, non esistono vuoti d’aria: senza quel migliaio di chilometri di altezza tra sé e la terraferma, la gente riesce molto meglio a comportarsi in maniera naturale e, dunque, a dare il peggio di sé. La considerazione della morte imminente non è preponderante, in treno, rispetto a tutte le altre cose che si possono fare nel frattempo. È vero, questa non preponderante considerazione della morte imminente da parte del tizio, lui tenderebbe a riconsiderarla subito se solo sapesse cosa si agita dentro la mia testa, che non sono un tipo violento, eppure gli tagliuzzerei eccome i legamenti del malleolo strisciando come un ninja lungo la carrozza numero undici, masticandogli poi le dita dei piedi fino a dissanguarlo, sputacchiando sui suoi amici conniventi unghie, cartilagini, epidermide e richieste di perdono tardive, e tutto questo io non lo sto scrivendo avendolo pensato adesso, cioè a viaggio finito, durante la fase della valutazione postuma degli eventi accaduti (la ruminazione), ma perché l’ho pensato mentre tutte queste cose succedevano, cioè sul treno, in viaggio, distratto e disturbato oltre ogni logica di sopportazione, anziché poter leggere l’ultimo di Murakami, che pure mi ero portato nello zaino, nonostante il chilo e mezzo di peso, diobanana.

sabato 17 dicembre 2011

Panic

«Freeze!»
Gli altri lo guardarono, armi puntate e indici pronti a premere. Troppe serie tv americane gli avevano standardizzato il linguaggio: arrossì sotto l’elmetto.
«Nessuno si muova!»
Fecero irruzione in una stanza vuota. Con la mano libera dall’arma diede istruzioni ai suoi: tu là, tu là, voi due copriteci.
«Comandante…»
Si voltò verso il militare che lo aveva chiamato sottovoce. Lo vide indicare col mento una porta aperta.
Nel cesso, appollaiato davanti allo specchio, c’era uno spettacolo raccapricciante: Giovanni Allevi nudo.

mercoledì 14 dicembre 2011

Strage di Firenze, senegalesi, italiani.

C'è questo video, che gira su Facebook, nel giorno della "strage di Firenze". Tantissimi miei contatti lo stanno condividendo. Si intitola così: "Discorso di un senegalese umilia la stupidità di certi italiani". Be', ho cliccato play, naturalmente, e l'ho guardato. Così adesso vi posso dire che se cliccate play pure voi vedrete un negro dire delle banalità sconcertanti e ovvie, che il peggior Veltroni potrebbe produrre sbadigliando durante qualsiasi puntata di Annozero. Solo che. Solo che. Solo che è negro. È negro e parla benissimo italiano. Indovina pure tutti i congiuntivi. È un bell'uomo. Non so se mi state seguendo. Tantissimi miei contatti stanno condividendo un video in cui un tizio dice cose inutili e retoriche che diventano all'improvviso critiche e intelligenti solo perché è negro. Il che fa il paio coi video dei cani che ridono, delle scimmie che sanno saltare dentro un cerchio e dei gibboni che fumano una sigaretta: è la peggior forma di razzismo possibile, quella sotterranea, quella che agisce per inerzia, come schiuma viscosa che scivola lungo un canale fognario. A me sembra che voi stiate urlando come banditori da circo: guardate! Guardate! C'è un negro che non si limita a rubare! Venghino siori, venghino! Nemmeno vi interessa quello che dice. Il vostro è stupore: stupore perché un negro - che evidentemente ritenete dovrebbe limitarsi a grufolare - PARLA. È davvero lunga, lunghissima, la strada che porta al domani. Se non altro perché è affollata di depensanti e si fa fatica a passare.

Dalla Fiera del Libro di Roma, mi riporto uno Sciamano.

Lucian Dan Teodorovici ha scritto un piccolo capolavoro. Si chiama “Un altro giro, Sciamano” (Aìsara Edizioni, traduzione di Ileana M. Pop) e adesso voi uscite e andate a comprarlo.

Fine della "recensione".
Possiamo fare due chiacchiere.

Questo Teodorovici, che io ho avuto l’onore di conoscere durante lo scorso Salone Internazionale del Libro di Torino, è un grosso letterato romeno (grosso anche nel senso della stazza), riconosciuto in patria come uno tra i più interessanti scrittori contemporanei (ho scoperto che il suo ultimo libro, ancora inedito da noi, è stato salutato dalla stampa nazionale come “il miglior romanzo degli ultimi vent’anni”: minchia): qui in Italia è pubblicato da Aìsara, casa editrice di cui
ho già avuto modo di parlare relativamente a “Zagreb”, di Arturo Robertazzi: di Teodorovici ho letto anche “La casta dei suicidi”, che pure è molto interessante, ma è con questo “Un altro giro, sciamano” che mi sono veramente deciso a scriverne, perché quello che penso adesso, che l’ho appena finito di leggere, è che tutti voi dovreste fare lo stesso.

Questo romanzo parla di un tizio. Nient’altro.
Sua è la voce narrante, suo è il punto di vista. Ne facciamo la conoscenza tra i tavoli di un bar, mentre Leonard Cohen canta a ripetizione “Dance me to the end of love” e, insieme a lui, non si sa bene il perché, ne ripercorriamo improvvisamente la vita, la vita, quella cosa lì che succede tra le due famose estremità dello spettro organico dell’esistenza. Ogni capitolo sembra un racconto breve quasi quasi autosufficiente: un uso delle analessi e delle prolessi che farebbe venire voglia pure a Quentin Tarantino di battergli il cinque, a Teodorovici, una capacità scientifica sbalorditiva di non perdere mai il filo e di tenere a bada la concentrazione del lettore, personaggi originalissimi e dialoghi istericamente realistici, uno strano e, secondo me, nuovo minimalismo, che non toglie, non decostruisce ma, tutto al contrario, arricchisce, va a pescare in una pozza dove già sguazzò un certo Raymond Carver, superandolo col progresso letterario di questi ultimi quarant’anni, correggendolo, addirittura, migliorandolo, mi perdoneranno i puristi del grande scrittore americano. Ecco cosa succede in questo romanzo di Teodorovici, mentre il protagonista ci racconta chi è e, soprattutto, perché, dopo un paio di bicchieri di troppo, si ritrova fuori di quel bar, al freddo, col suo migliore amico, convinto che “da allora in poi la mia vita sarebbe cambiata completamente”.

Sentite (vi ricordate? La recensione è finita dopo cinque righe, noi qui stiamo chiacchierando), è capitato a tutti. Alla maggior parte: di bere troppo, una sera, e di sentirsi improvvisamente calati in una realtà alcolica piena di dettagli, piena di (false) speranze, piena di incredibili aspettative. A suon di Negroni, ormai qualcosa come sette anni fa, decisi insieme ad altri due amici di fare una vacanza pazzesca che, da sobri, non avremmo mai avuto nemmeno l'ardire di progettare. Da ubriachi troviamo il coraggio di dare baci e di dire cose e di lasciare parcheggiata la macchina laddove in condizioni normali non avremmo nemmeno pensato di posare il pensiero: ecco perché, ormai completamente andato, l’amico del protagonista, onorevolissimo compagno di bevute, gli dice a un certo punto: “Senti, sciamano, da questo momento basta, la nostra vita cambia. Te lo dico io, cambia proprio di brutto. Basta!”.

Così comincia il libro, con queste due persone che parlano, ubriachissime. Succedono un po’ di cose in questo bar, non tantissime ma abbastanza per farci desiderare (io l’ho desiderato) che Teodorovici non ci faccia mai più uscire da lì dentro. Invece giri pagina e Teodorovici, secondo un criterio bastardissimo che dovrebbe essere proprio di tutti gli scrittori bravi, non solo ti ci fa uscire, ma non ti ci farà mai più rientrare, sballonzolandoti per tutta la lunghezza della storia qua e là nel tempo e nello spazio, risalendo la spina dorsale di quest’uomo, di cui niente sapevamo prima e niente sapremo dopo ma che, nel frattempo, avremo imparato ad amare (e vi assicuro che prima della fine delle pagine avremo anche imparato a dare un nome e un perché a tutto quell‘alcol che stavano bevendo all’inizio, perché in effetti è di questo che parla questo libro, e cioè del perché due uomini relativamente giovani e relativamente affermati dovrebbero desiderare di distruggersi di alcol e di cambiare le proprie vite).

C’è un non so che di Carveriano, dicevo, solo che manca l’America. Manca completamente. La storia è molto precisamente localizzata: succede tutto in Romania, ci sono i nomi dei paesi, ci sono le caratteristiche geografiche di tutti i luoghi e, soprattutto, ci sono le abitudini, il folklore, le tipologie umane, i mestieri: “Un altro giro, sciamano” è anche un’interessantissima carrellata su questa straordinaria cultura.

Nel capitolo numero due si parla di trampoli e di feste paesane, nel capitolo tre all’improvviso siamo in vacanza e si parla di snorkeling, di mute in neoprene e di gelosia (pagine di un erotismo sotterraneo pazzesco), nel capitolo quattro si parla di giornalismo, di carte segrete, di “carnat” e di “caltabos”, nel capitolo cinque si parla di un bambino-lupo e, di nuovo, di gelosia, tutto all’interno di una camera d’albergo, nel capitolo numero sei la storia vira verso i toni del tradimento e si parla del potere della verità, nel capitolo sette si parla di zingari e di oche, di cultura gitana, di crescita e di violenza, nel capitolo otto siamo in un camion e si parla di trasporti, traffico e di aria fritta, fino a quando - proprio un attimo prima che tu-lettore ti domanderai quale caspita sia il punto - l’autore ci riporta al centro preciso degli eventi con un colpo di quelli che ogni tanto fa Federer sotto le gambe che tutti si alzano e urlano e si guardano annuendo e le signore si aggiustano la tracolla della borsa sulla spalla che è scesa per il troppo applaudire, nel capitolo nove (forse il più “carveriano” di tutti) c’è una grande gita e già da qui diventa più chiaro come Teodorovici ci stia spingendo (anche simbolicamente) verso la riva, riprendendo, mano a mano che ci si avvicina alla conclusione, tutti gli elementi disseminati nell’arco della narrazione, disponendoli su un tavolo come se il grosso del puzzle fosse già risolto e si trattasse ormai soltanto di piazzare i pezzi perimetrali, nel capitolo numero dieci c’è un tram che canta e tante, tante botte, nell’ultimo capitolo, infine, anche questo sufficientemente carveriano da ricordare in qualche modo il capolavoro “Cattedrale”, alcune persone stanno in una casa, tra cui il protagonista, naturalmente, che finora non ci ha mai abbandonato, ma anche quell’altro tizio, quello che all’inizio, in quel bar con Leonard Cohen, si diceva convinto che la loro vita sarebbe cambiata, eccetera eccetera, e va a finire che si nomina un documentario su un incidente ferroviario che vi giuro vi farà sentire una specie di rumore, come di una zip che si chiude, perché quello sarà il costume di scena che si sigillerà definitivamente intorno al corpo dell’attore, facendone perdere per sempre le sembianze umane: ta-dan, vi dirà a quel punto Teodorovici, ecco qua l’effetto speciale completato, ecco perché io sono lo scrittore e voi siete i lettori, ecco perché questa storia adesso è veramente completa. Ecco perché questo libro è un vero libro.

Un piccolo capolavoro, sul serio.
Una prova magistrale di costruzione di una trama e di solidità generale della struttura. Il tutto calato in uno scenario originale e fascinoso che non ha nulla del realismo della provincia americana a cui una letteratura simile ci aveva abituato.

Tante chiacchiere per tornare all’inizio: Lucian Dan Teodorovici ha scritto una cosa bellissima: a me è venuta voglia di essere il protagonista della sua opera. Di vivere nel suo piccolo mondo. Siate anche voi, per un po' di tempo, qualche altra cosa. Questo autore è formidabile a centrare l'impresa letteraria più bella di tutte: mettervi addosso un travestimento senza che ve ne possiate accorgere. Ritrovarsi all'improvviso con le brache alle ginocchia in mezzo alla strada: ecco che cosa dovrebbe fare sempre la letteratura ed ecco che cosa fa sicuramente in questo caso "Un altro giro, sciamano".