sabato 17 dicembre 2011

Panic

«Freeze!»
Gli altri lo guardarono, armi puntate e indici pronti a premere. Troppe serie tv americane gli avevano standardizzato il linguaggio: arrossì sotto l’elmetto.
«Nessuno si muova!»
Fecero irruzione in una stanza vuota. Con la mano libera dall’arma diede istruzioni ai suoi: tu là, tu là, voi due copriteci.
«Comandante…»
Si voltò verso il militare che lo aveva chiamato sottovoce. Lo vide indicare col mento una porta aperta.
Nel cesso, appollaiato davanti allo specchio, c’era uno spettacolo raccapricciante: Giovanni Allevi nudo.



Aveva gli occhi chiusi e non indossava niente, eccezion fatta per le All Star e gli occhiali con la montatura di nichel. Con le mani protese in avanti suonava un pianoforte immaginario.
«Fermo!»
L’insistenza del comando assunse il sapore stantìo di stronzata: il sospetto non reagì e nel Comandante montò una frustrazione da madre inascoltata a oltranza.
«Ma che cosa diavolo sta…»
Il Comandante era insicuro. Non gli era mai capitata una scena del genere in dieci anni di carriera. Di irruzioni ne aveva fatte, di crimini ne aveva sventati, ma non era così che di solito li coglieva sul fatto.
«Allevi!»
Provò a chiamarlo, ma lui non si svegliò, ammesso che stesse dormendo: in effetti non pareva addormentato. Sembrava un fachiro nell’atto supremo di una concentrazione assoluta. Deve esserci gente così, nei posti più impensati dell’India, che fa facce identiche un attimo prima di inghiottire un pugno di chiodi, pensò il Comandante trattenendo qualcosa che non era rabbia ma non era nemmeno una risata.
«Allevi, conterò fino a tre!»
Silenzio, rumori di deglutizione, leggeri scatti della ferraglia di armi e fruscii delle divise d’ordinanza, mentre i piedi dentro gli anfibi aprivano angolature più ampie sul pavimento secondo logiche di attacco e difesa.
«Uno.»
Da tutte le parti mani protese nell’aria che non promettevano niente di buono.
«Due.»
Intorno alla cornice dello specchio c’erano tantissime fotografie, al punto che la superficie riflettente era ridotta a un piccolo cerchio di una trentina di centimetri di diametro. Ricordava la perfetta scenografia di un camerino d’artista: le lucine perimetrali, le confezioni di trucchi, di gel, una decina di occhiali da vista di colorazioni diverse, una struttura metallica a cui erano appesi dei farfallini. C’era anche una di quelle bocce di profumo, tutte ampollose, barocche, col pon-pon in cima che si poteva premere per spruzzarselo addosso.
Il Comandante ebbe un moto di disgusto, ma lui era uno che si faceva la barba a secco dall’età di nove anni.
«Ok, tre!»
Si spostò di lato e la seconda, terza e quarta fila di militari si riarrangiarono secondo uno schema predefinito, una specie di triangolo isoscele: con un gesto della testa mandato a memoria tutti i presenti, tranne Allevi, si fecero calare ai lati del cranio delle specie di corazze scure e riflettenti che potevano essere paraorecchie. L’operazione non durò che un paio di secondi di automatica coreografia militare.Il Comandante chinò leggermente il capo e strillò nel suo microfono con una specie di sorriso:
«SUONO!»
Dai potentissimi amplificatori che tutti i militari recavano addosso, più o meno all’altezza del petto, riverberò il primo movimento della Sonata in C di Mozart, eseguita da Cristoph Eschenbach. Il rinculo li fece arretrare di qualche centimetro: la loro posizione nella stanza fece ruotare il suono con una precisione asburgica. I bassi tuonarono da un luogo indefinito che poteva essere l’anima di tutti loro.

Le prime note ebbero l’effetto di una palla demolitrice su una torta nuziale: non restò nulla del precedente scenario. Caddero le fotografie dalla cornice dello specchio, scoppiarono i bulbi di vetro come uova soda infilate in un forno a microonde: le lampadine furono polverizzate, supporto e filamento compresi. Il gas inerte si arrampicò fino al soffitto, aggiungendosi all’anidride carbonica della stanza: tutto fu investito da un’ondata acustica che non era solo forte, fortissima, ma era anche diversa da tutto quello che finora si era librato in quegli ambienti: d’altra parte non era forse questo che faceva la Squadra d’Assalto?Demoliva torte nuziali.
Giovanni Allevi spalancò i suoi occhi acquosi che, da bambino, lo avevano reso così rassomigliante ad Audrey Hepburn.
Il Comandante gridò per sovrastare la musica:
«Giovanni Allevi, ti dichiaro in arresto per emulazione compulsiva di Sommo Genio, per appropriazione indebita degli spazi culturali di questo Paese e per aver suonato al Radio City Music Hall indossando… quelle stupide scarpe!»
L’uomo allo specchio si portò le mani alle orecchie. Una leggera epistassi eruttò con una lentezza di magma dalla sua narice destra.
«So-so-so-so-soffro di crisi di panico, voi non potete…»
Il Comandante si fece avanti e gli mise una mano sui capelli scarmigliati.
«Non te l’ha detto tua madre che dovresti pettinarti come si deve!? Sei un musicista o un barman del cazzo? E!?»
Giovanni Allevi alzò gli occhi lacrimosi verso il militare che lo sovrastava.
«Voi avete interrotto… io stavo… stavo… L’ho anche detto a Radio Deejay che io…»
«Mozart parlava a Radio Deejay, secondo te? RISPONDI!» Poi, rivolgendosi agli altri, comunicando di nuovo nel microfono collegato al casco. «Ragazzi, avete mai sentito di Mozart che rilasciava interviste a Radio Deejay?»
Risate, teste rese mute dall’impavida musica che facevano segno di no. Il volume, intanto, aveva raggiunto il livello tre dei cinque previsti per quelle operazioni d’ordinanza.
«Che cosa abbiamo interrotto, Allevi? Stavi componendo? E che cosa stavi componendo? Un’altra sigla di un cartone animato!?»
Giovanni Allevi provò ad alzarsi, ma la mano enorme del Comandante premuta sulla sua spalla gracile da uomo di conservatorio gli suggerì di lasciar perdere secondo una retorica erculea.
«Confessa, Allevi!»
«Ma io…»
«CONFESSA!»
«Ma che cosa volete da me!?»
«Lo sai benissimo perché siamo qui. Sai benissimo chi siamo! Confessa e vedremo di trattarti bene!»
(piagnucolando) «Vi prego, spegnete la musica di questo mio… mio..»
«Mio COSA?»
(piagnucolando di più) «Di questo mio collega che mi rende…»
Il Comandante fu fulmineo come uno starnuto e lo colpì forte, sulla nuca.
(strillando) «Ahhhhhhh!»
«Stai dritto, volgare emulatore!»
«Io non…»
«Di chi è questa musica, eunuco!?»
(strillando di più) «Ahhhhhhhhh!»
(ai colleghi) «Alzate il volume al livello quattro!»
Allevi si accartocciò sulla sedia, cercando protezione nel suo stesso corpo esile.
«Confessa, ho detto!»
«Ma cosa dovrei…»
«Livello cinque!»
«No, il livello cinque no!»
«Allora confessa!»
«Io amo Mozart! Non lo emulo! Non lo imito! Non faccio niente di male! Io lo rispetto!»
«La gente ascolta te anziché ascoltare Mozart!»
«Prendetevela con…»
Il Comandante gli tirò i capelli.
(piagnucolando) «Ahiiiaaaaaaaaa!»
«Il tuo Panic è un plagio della sigla di Mio mini Pony!.»
Giovanni Allevi strabuzzò gli occhi paludosi.
«Ancora con questa… Io sono un compositore. Io incontro delle musiche che…»
«Tu non vali un cazzo! Sei un oggetto commerciale, come una batteria di pentole!»
(piagnucolando) «Ho suonato a New York, vendo milioni di copie dei miei…»
(tirandogli ancora i capelli) «Dillo ancora! Io ti sfido! Avanti! Usa ancora quella parola! Di’ ancora che “suoni”! Ti sfido due volte, ti sfido, figlio di puttana, avanti, di’ ancora che “suoni”! Di’ ancora che “suoni” un’altra maledettisima volta e io ti giuro che…»
(piagnucolando tantissimo) «Ahhhhhhhhhhhhhh!»
(ai suoi) «Livello cinque!»
«No, livello cinque no!»
«Sì, livello cinque sì!»
«No! E va bene, va bene io…»
«Tu cosa?»
«Panic può ricordare vagamente quella sigla di…»
«È identica!»
(piagnucolando) «Ghhhhhhhhh!»
Il comandante gli si avvicinò all’orecchio: poteva sembrare un gesto romantico.
«Ti piace andare in televisione? Ti piace apparire? Vuoi andare dalla Dandini? E allora fai il cantante pop. Lascia stare la musica classica. Altrimenti sai cosa ti faremo? Lo sai vero? Siamo qui apposta, perciò lo sai. Tu lo sapevi a cosa andavi incontro. Ti porteremo via nudo, davanti a tutti, e ti rinchiuderemo in cella e sai che cosa succederà? Succederà che ti faremo ascoltare tutto il giorno, tutta la notte, sempre, le variazioni di Glenn Gould, mi stai capendo bene? Mentre dormi, mentre caghi, mentre pisci, mentre mangi, mentre ti fai le pippe, noi ti faremo sentire della musica vera, di pianisti veri, mi spiego? Ti farò sentire tante di quelle volte il Rondò alla Turca che chiederai pietà. Mi stai sentendo, Allevi? Ti metteremo davanti allo specchio, non questo specchio, non ci saranno lucine nello specchio che ho in mente io, non ci saranno tutte queste inutili foto, non ci saranno duetti con Jovanotti e con la Pausini, mi hai sentito bene? Ti metteremo davanti allo specchio ad ascoltare Glenn Gould, ti legheremo le mani per un periodo di tempo che stabilirà il Giudice, e quando uscirai, se uscirai, la tua stessa musica ti farà talmente cagare che manderai il curriculum per farti assumere da un orefice.»«No, non…»«Non ti piace Glenn Gould? Preferisci Vladimir Horowitz? Ti faremo sentire Horowitz. Tutto quello che vuoi. E poi dovrai venire in caserma a firmare, due volte alla settimana, e mentre firmerai ti inoculerò tanto di quel Brahms che finirai per cagarlo, al posto di quegli spaghettini al tonno del cazzo che dici di adorare tanto. Mi hai capito bene, Allevi? Perciò vedi di collaborare subito e cercheremo di farti uscire da questo buco con le tue gambe. (ai suoi) Spegnete tutto!»
Il silenzio tornò a circolare nella stanza come un fluido.
«La prossima cosa che sentirai sarà Walter Gieseking, come minimo. E lo ascolterai in ginocchio. Te la ricordi quella bella faccia da fachiro che stavi facendo poco fa mentre “componevi”? Ecco, vedi di rifarla uguale-uguale perché ti servirà con tutti i ceci che ti metteremo sotto le rotule.»
(singhiozzando e sbavando) «Perché ve la prendete con me? Lo fareste anche voi! Andate da tutti quelli… andate da chi compra i miei…»
(rivolto ai suoi colleghi) «Questo qui vuole fare una riforma della Giustizia! (a lui) Vuoi fare una riforma della Giustizia, eh, bambino Giovanni? (ai colleghi) Si è messo in testa di voler fare il rivoluzionario! (a lui) Noi ce la prendiamo con te perché così dice la legge. Se hai qualcosa in contrario prendi carta e penna e scrivi una bella lettera di protesta a qualche Magistrato. (ai suoi, con tono definitivo) Ripulite tutto, trovate due stracci e portiamolo via.»
Giovanni Allevi fu ammanettato e reso presentabile.
Prima di essere condotto fuori il musicista guardò il suo bellissimo specchio da artista e tutte quelle lampadine esplose.
«Vuoi sporgere reclamo?»
Allevi fece no, con la testa.
«Bravo Allevi, bravo. Mi piace quando stai a cuccia. Mi piace quando non componi.»

In caserma li accolsero con gli applausi. Allevi era in cima alla lista da quattro anni.
Il Comandante e i suoi collaboratori si gustarono l’attimo con le teste fuori dai finestrini a raccogliere il tributo. I cappucci calati sulla faccia per non farsi riconoscere, mentre i flash scattavano e i microfoni delle televisioni diventavano cespugli. Sul sedile posteriore, Allevi, ammanettato, per la prima volta non riconosceva l’entusiasmo.
«Adesso ti faccio vedere una cosa.»
Giovanni scosse la testa: era un “no” onnicomprensivo che aveva a che fare con tutte le cose, pure quelle che già erano successe.
«Guarda che è per il tuo bene.»
Si diede un cenno d’intesa con l’autista attraverso lo specchietto. Risuonarono le sirene.Dopo pochi minuti entrarono in una specie di hangar. Le urla si erano spente. Il Comandante trascinò Allevi in una struttura piena di targhe commemorative e guardie armate ad ogni porta che scattavano sull’attenti anche a caso. Sedettero in una sala d’aspetto piena di piante finte e riviste di architettura. Quando la porta finalmente si spalancò fece l’ingresso un tizio abbastanza anonimo, pelato, più grasso che alto. Aveva manine piccolissime e un alito da fogna.
«Lui è Giuliano. Giuliano, ti presento Giovanni.»
I due si guardarono. Allevi con la timidezza dell’ultimo arrivato, Giuliano con la sicurezza del padrone di casa.
«Mettiti comodo, Giovanni, mettiti comodo! A che livello sei arrivato?»
Allevi lo guardò senza dire nulla, senza capire. Al suo posto rispose il Comandante:
«Quasi al quinto. C’è mancato poco.»
«Complimenti! Io al terzo già ero crollato!»
Fu in quel momento che Allevi riconobbe il collega.
Il Comandante parlò:
«Ora vi lascio soli. Giuliano, spiegagli che essere un pentito ha i suoi vantaggi. Digli che bella vita fai.»
I due risero dandosi pacche sulle spalle come quegli amici che si conoscono in vacanza e poi si rivedono d’inverno, infine il Comandante uscì dalla stanza rispondendo al cellulare.
Giuliano e Giovanni si guardarono attentamente per pochi secondi ancora, poi l’uno invitò l’altro a sedersi:
«Coraggio! Qui non ti fa mica più male nessuno.»
«Tu eri…»
«Sì, ma è acqua passata.»
«Ma i Negramaro erano…»
«Musicisti di merda con un successo pazzesco, sì, esattamente come tutti gli altri, lo so.»
«E…»
«E niente. Quella roba del “verde coniglio” e delle “facce buffe” non poteva durare a lungo. Ora però tu stai zitto e mi ascolti, Giovanni. Il problema è il Paese, capisci? Mica noi. Noi siamo innocenti. È la gente che…»
«Ma tu…»
«Sì, collaboro con loro. Guarda.»
Intorno al braccio Giuliano aveva una fascia. Sopra c’era scritto: Task force per il recupero dello spirito critico. Seguito da un numero progressivo.
«Chi altri…»
«Non posso parlarne, mi dispiace. Ti basti sapere che siamo tanti, tantissimi: molti sono insospettabili…»
«Ma io, esattamente, che cosa dovrei…»

Quando due ore più tardi il Comandante ritornò nella stanza, Giovanni e Giuliano stavano parlando di fica.

[illustrazione di Daniele Zaggia, per conto di Tasso Edizioni]

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