venerdì 27 maggio 2011

Non mi dissocio.

[scritto e pubblicato il 15 dicembre 2009]

Mi chiamo Stefano Sgambati e non mi dissocio dall'atto violento perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalla retorica ipocrita di questi giorni, questo sì, espressa unitamente dalla sinistra e dalla destra, nell'ambito di un'orgia benpensante di solidarietà pret à porter nei confronti del presidente del consiglio, UNICO responsabile del clima di violenza imperante in questo momento nel nostro Paese.

Mi chiamo Stefano Sgambati, sono un cittadino italiano e mi dissocio da Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalla pasta scotta, dalle canzoni di Tiziano Ferro ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni del nostro presidente del consiglio. Mi dissocio dai libri di Moccia, dai film di Vanzina e da Maria De Filippi. Mi dissocio dalle donne che usano solo ballerine, mi dissocio dai jeans a vita alta, dalla pioggia e dall'inverno. Mi dissocio da Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e Maurizio Gasparri, ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi: mi chiamo Stefano Sgambati e questo non fa di me un violento, ma un cittadino libero e scevro da condizionamenti. Mi dissocio da Maroni, da Bonaiuti e da Italy's Got Talent. Mi dissocio dal conflitto d'interessi, dallo scudo fiscale, dalla frode e dall'inganno. Mi dissocio dal falso in bilancio, dalle infiltrazioni mafiose e dai respingimenti nei confronti degli immigrati. Mi dissocio da chi supera in corsia d'emergenza, da chi passa col rosso e da chi suona il clacson un secondo dopo che è diventato verde, ma non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi: questo non fa di me un violento, caro ministro Maroni, se per caso passi da queste parti a farti i cazzi miei. Mi dissocio dai Tronisti di Maria De Filippi, dal Festival di Sanremo e da X Factor. Mi dissocio dai pantaloni color cachi, dai mocassini e da Federico Zampaglione. Mi dissocio dalle mani fredde, dal mal di testa e dall'insonnia, mi dissocio dal processo breve, dal Lodo Alfano e dalle ronde nere. Mi dissocio da Il Giornale, da Gianfranco Fini e dalle divise violente. Mi chiamo Stefano Sgambati e mi dissocio da tutto questo ma non dall'atto violento perpetrato ai danni di Silvio Berlusconi. Mi dissocio DA Silvio Berlusconi e dalla sua cricca di cani da riporto, mi dissocio da chi non sa pensare con la propria testa, mi dissocio dagli indifferenti, da Simona Ventura e dai Reality Show. Mi dissocio da Luca Sofri, dall'avvocato Ghedini e da Stefano Accorsi. Mi dissocio dalla Strage di Capaci, da Piazza Fontana, dalla P2, da Licio Gelli e dalla camorra. Mi dissocio dalle stragi di Stato, dai Servizi Segreti deviati e dalle discriminazioni. Mi dissocio dalla sensibilità a cottimo, dalle morti bianche e dai poliziotti che sparano contro gli incensurati, ma non mi dissocio dall'atto di violenza contro Silvio Berlusconi. Mi dissocio dalle banche, dalle firme che spostano capitali, dai paradisi fiscali, mi dissocio dalla coda alla vaccinara - e questo sì che è anticonformista - mi dissocio dalla frutta e dalla verdura, dall'influenza suina e dai vaccini griffati Dolce & Gabbana. Mi dissocio da Franco Zeffirelli, dalle cover delle canzoni uguali ai pezzi originali, dal sindaco Alemanno e Bruno Vespa. Mi chiamo Stefano Sgambati, sono un cittadino italiano nel pieno delle facoltà mentali e non mi dissocio dall'atto di violenza perpetrato ai danni del presidente del consiglio. Mi dissocio dalla panna nella carbonara, da Enrico Papi e dal fascismo. Mi dissocio dagli arbre magique, dai tifosi romanisti che piangono tutte le partite e da quelli juventini che non sanno giocare pulito. Mi dissocio dal trasporto pubblico di Roma, dai tassisti e dai capperi. Mi dissocio da tutto quanto non sia evidentemente intelligente, perché c'è intelligenza anche nel massimo disimpegno. Mi dissocio dalla violenza morale di una menzogna o di una censura, piuttosto che da quella fisica, più pratica e autentica. Mi dissocio dalle gocce di pioggia fredda che cadono precise precise nel colletto della camicia alle otto di sera, mi dissocio dai cani perché preferisco i gatti e mi dissocio dagli animalisti. Mi dissocio dalla ricerca spaziale, dalle industrie farmaceutiche e dalle donne al volante. Mi dissocio dai Suv, da Al Bano Carrisi e dalle multe.

Quel Daniele Pasquini che voleva Ringo Starr.

C’è una cosa che premetto sempre, prima di dare qualsiasi giudizio. E’ questa: io non sono nessuno, non chiedetemi pareri, a meno che non vogliate sapere qualcosa a proposito di Youporn. Sono contrario ai consigli, dati e ricevuti. Alla luce di ciò, mi piacerebbe parlare di un libro che ho da poco finito di leggere e ne vorrei parlare non perché sia un libro particolarmente bello (anche), ma perché è un libro scritto da un giovanissimo, edito da una casa editrice di geni (le parole sono importanti) e questi due elementi, messi insieme, valgono la pena di cinque minuti di lettura.

Il libro in questione si intitola “Io volevo Ringo Starr” (Intermezzi Editore) e l’autore è Daniele Pasquini. Allora, sentite, prima di tutto una cosa: non mi metterò qui a dire che questo libro, scritto da un poco più che ventenne, sia imprescindibile, necessario, urgente o scegliete voi un lemma da quella pozza lessicale insopportabile dove, quasi sempre (stavo per scrivere “spesso e volentieri”, poi ci ho ripensato), sguazzano censori e recensori. “Io volevo Ringo Starr” (da questo momento in avanti “Ringo Starr”) è un gradevole libretto che non cambierà il mondo, né pretende di farlo, e la mia onestà intellettuale preme adesso per dirvi che qualora vi rimanessero, nel borsellino, le ultime due banconote della vostra vita, ebbene, meglio sarebbe se vi compraste un testo qualsiasi di Aldo Busi.

“Ringo Starr”, ecco perché ne sto scrivendo, è un libro che si indirizza un po’ a tutti, ma soprattutto ai giovani: parla di giovani, ma lo fa in modo adulto. Apriti cielo: il libro di Pasquini fa una cosa rivoluzionaria che mi ha fatto aprire gli occhi. Si rivolge a un pubblico giovanile (non per forza giovanile, ma soprattutto giovanile: almeno secondo me) senza trattarlo da perfetto imbecille. Dico: ci voleva tanto? Dentro a “Ringo Starr” c’è un sacco di roba, messa proprio bene, per esempio c’è tanta filosofia, c’è un po’ di matematica, c’è un guazzabuglio d’amore e frustrazione, però quest’amore e questa frustrazione sono trattati senza l’abuso di luoghi comuni. Tanto per dire: un regista acclamato come Ozpetek o uno scrittore di fama mondiale come Paolo Giordano sono soliti trattare queste tematiche - Amore & Frustrazione - circa centomila volte peggio di Pasquini che, udite udite, non inserisce nel suo libro nemmeno un disadattato, nemmeno un frocio, nemmeno una lesbica, nemmeno un autistico e, miracolo!, nemmeno un’anoressica, men che meno una bulimica, niente di niente, giuro che non ci sono storie di disturbi alimentari in questo libro rivolto ai giovani, che parla di giovani, trattando però i giovani da adulti. La storia non ve la dico, perché odio parlare delle trame dei libri: comunque è tutta una specie di metafora musicale e vi dico, senza tema di smentita, che la chiusura del volume vale da sola il fatidico prezzo del biglietto. Pasquini con quel finale lì, che pure non mi era piaciuto prima dell’ultimo, ultimissimo paragrafo, m’ha fregato, m’ha fatto girare pagina convinto che ci fosse ancora almeno un pezzetto da leggere e invece no e questa cosa succede per un motivo ben preciso, precisissimo, studiato, calibrato, che - se amate la lettura e se avete la giusta curiosità che dovrebbe spettare ai vivi - non vi potete perdere. Lo voglio ripetere ancora, l’ho detto all’inizio: Pasquini, esattamente come me, non è Burroughs, non è niente: quelli come noi fanno il piacere all’umanità di lettori di essere onesti e di scrivere da tali, senza prendere per il culo.

giovedì 26 maggio 2011

Ammazzare Aldo Moro oggi.

- ... Il corpo dell'onorevole Aldo Moro lo potete trovare a Via Caetani - ripeto: Via Caetani - nel bagagliaio di una Renault rossa. I primi due numeri di targa sono...
- Ma chi è, scusi?
- Mi sente?
- Sì, ma chi è?
- Brigate Rosse.
- Brigate cosa?
- Rosse.
- Senta, guardi che ha sbagliato.
- Il corpo dell'onorevole Aldo Moro lo potete trov...
- Aridaie. Senta, ma lei chi sta cercando?
- Forse non ci siamo capiti...
- No, è lei che non ha capito, scusi. Lo sa che ore sono?
- Come sarebbe a...
- Ecco, glielo dico io. Sono le 13.45. Lo sa questo che vuol dire?
- Non riesco a...
- Dico: lo sa questo che vuol dire?
- Ma io...
- Io sto mangiando. Ha capito?
- ...
- Sto in pausa pranzo e guardi che ho risposto solo perché pensavo fosse mia moglie, che quella poi chissà che si pensa...
- Qui sono le Brigate Rosse, mi sente?
- Sì e io sono incazzato nero. Come la mettiamo?
- I primi due numeri di targa della Renault rossa sono...
- (fuoricampo) Ma chi è che rompe li cojoni?
- Ma che cazzo ne so, uno che si vede che non je va de magnà.
- (fuoricampo) ... E vabbè, mannalo un po' affanculo!
- Ha sentito il collega che ha detto?
- Senta, forse non ci siamo spiegati. Non posso parlare con un responsabile, per piacere?
- No, ha ragione: nun se semo spiegati. Qui stamo TUTTI a magnà. Se io le chiamo il "responsabile", come dice lei, a me quello me licenzia.
- Io sto chiamando per la questione Aldo Moro.
- E io le sto dicendo che c'ho le tagliatelle ar sugo che me se stanno a freddà.
- Ma il segretario del Partito...
- (fuoricampo) Aho, se sbrigamo o nun se sbrigamo?
- Senta guardi, mi fa il piacere di richiamare dopo le 16 per favore?
- Due ore di pausa pranzo vi prendete?
- Ma anvedi questo... Lei sta parlando con un pubblico ufficiale, forse le è sfuggito il particolare. Come si permette?

***

3) Trilogia su David Foster Wallace - Scarpe

Non riesco a seguire un dibattito, una conversazione, una lettura, è più forte di me, non ci riesco, lo giuro su dio, e questa volta non c’entra il feticismo, la perversione, l’ignominia dei miei sensi e dei miei gusti, ma non ce la faccio, mi distraggo, va a finire che non sento una sola parola di quello che il relatore seduto dietro al tavolo sta dicendo, se gli organizzatori non si sono presi la briga di spicciare su quel tavolo una tovaglia o un telo lungo abbastanza da arrivare a terra, così da coprire, da nascondere alla mia vista, i piedi di quel relatore o di quella relatrice. L’altra sera sono andato a seguire questa serata-evento (evento di che, poi?) in occasione della morte di uno scrittore che mi piace e di cui ho parlato anche troppo e che, dunque, non nominerò mai più, fino al prossimo 12 settembre, organizzata dai “tipi” (si dice così) di Minimum Fax, dei geni dell’editoria che hanno saputo tagliarsi uno spazio incredibile nell’ambiente, nonostante l’oligarchia annientante dei colossi “main stream”.

2) Trilogia su David Foster Wallace - Un modo

Giusto ieri m’ha chiamato un caro amico e collega per domandarmi se, secondo me, fosse il caso di proporre un pezzo su DFW al giornale per cui scrive. “Perché no?”, gli ho risposto. “Pudore”, ha replicato lui: “Mi vergogno”. Vergognarsi di apprezzare DFW come autore è qualcosa che succede ai puri di mente. A me è capitata la stessa cosa, qualche settimana fa, quando, per ragioni che adesso preferirei non argomentare più del necessario, mi sono trovato ad entrare in uno dei miei locali preferiti accompagnato da una sventola con una minigonna più “mini” che “gonna” e con delle decolleté di vernice ai piedi che, per forza di cose, hanno riarrangiato il concetto di “vertiginoso”. DFW non è una sventola, anzi è un tipo losco e bruttarello e, di sicuro, non usa indossare decolléte di vernice, a meno che il suo lato oscuro - che già vanta tinte sepolcrali - non fosse più complicato di quello che immaginassi; però può indurre al pudore, come una bella gnocca che evidentemente non fa al caso tuo e che però hai scelto di corteggiare al solo uso e consumo delle gonadi e per carburare l’ego: tutto ti sembra ovvio e facile, finché capisci che prima di ammanettarla alla testiera del letto, ti ci dovrai far vedere in giro. In questo senso (e solo in questo senso) non c’è differenza tra una sventola e un cesso. Uno che legge DFW, avendo al contempo anche l’ardire di apprezzarlo, è di sicuro un cretino, uno che vuole darsi un tono, uno che non sapendone niente di letteratura, decide di farsi andare bene il primo scrittore “impegnativo” che incontra e così si mette la coscienza a posto alla voce “cultura” e, semmai, tiene pure la risposta pronta casomai gli dovessero domandare qualcosa a proposito del proprio “scrittore preferito”. DFW sembra fatto apposta per esser lo “scrittore preferito” di chiunque, anche se nemmeno si sa di cosa si sta parlando. Il problema di DFW è che, pure lui, prima di poterlo ammanettare alla testiera del letto, te lo devi leggere e le cose che DFW scrive sono parecchio strane, indossano, cioè, una minigonna assurda e tacchi altissimi, così che la gente facilmente possa pensarne male: guarda che zoccola, toglile quell’abitino, falla scendere dai quelle scarpe, struccala ed ecco che ti ritrovi con tua nonna. Di DFW si potrebbe dire la stessa cosa: levagli tutto quell’inutile realismo isterico, proibiscigli le metafore azzardate, le note a margine, le divagazioni a volte lunghe decine di pagine, semmai spuntagli pure un pochino quell’umorismo a tutti i costi ed ecco che l’hai messo al palo. Ecco che ti passa la voglia di ammanettarlo alla testiera del letto. Perché le “trame” di DFW sono quello che sono, spunti, tutt’al più, piccole intuizioni che poi lui allunga a dismisura grazie alla tecnica mostruosa, al citazionismo esasperato, al realismo isterico, alle divagazioni e a tutte le cose che ho già detto prima. Le minigonne, le decolléte di vernice. Le labbra gonfiate dal rossetto, il seno che prorompe dal vestito come pasta lievitata a sesso. C’è pudore a farsi vedere in giro con DFW.

1) Trilogia su David Foster Wallace - Parentesi

Secondo me è stata la parentesi tonda aperta e chiusa. Voglio dire. Secondo me è stata la parentesi. Ci sono delle parentesi che non significano niente, ci sono delle parentesi addirittura assurde, per esempio quelle che stanno negli esercizi di matematica o di algebra, come si dice, ecco, di quelle parentesi lì è sicuro che io non ci ho mai capito un’acca, e poi ci sono delle altre parentesi ancora. Quando capita una di queste parentesi che dico io, queste altre, tonde, che contengono numeri, e questi numeri sono in verità delle date di nascita e di morte, precedute da un nome e un cognome, allora vuol dire che il titolare di quel nome e cognome è nato e morto e che quella parentesi racchiude in due numeri separati da un trattino l’anno in cui il tizio è nato e l’anno in cui gli è capitato in sorte di morire. Ecco quali sono le parentesi di cui sto parlando: sono queste parentesi, non altre, che possono, a seconda dei casi, illuminarti la giornata oppure spegnertela.

"Alice in gabbia": ovvero come leggere e gradire un libro scritto da una femmina pure se sei un maschilista.

Vi dico subito tre cose, a proposito di questo libro che si chiama “Alice in gabbia”: l’ha scritto una signorina, Arianna Gasbarro, quindi una donna, non so se avete capito, una femmina, e io, maschilista convinto, di quelli che va bene tutto, basta che la cena sia pronta alle otto, non saprei bene dire da quando mi sia persuaso che anche le donne possano scrivere libri, a questo mondo, ma forse - chissà - proprio leggendo libri come questo di Arianna. Due: si tratta di un libro pubblicato da un’altra di quelle case editrici di geni e di pazzi che a un certo punto prendono e si mettono a sfidare i dragoni alati davanti ai castelli delle principesse e il bello è che ci fanno pure il piacere di combattere con coerenza, coraggio e determinazione. Si chiama “Miraggi” questa casa editrice e proprio come altre case editrici di cui vi ho parlato (Intermezzi, per esempio, o Aìsara, o Del Vecchio per nominare le prime tre che mi vengono in mente non del tutto casualmente) fa le cose per bene e con l’onestà propria dei pazzi, appunto, o dei geni. Impugnate i loro libri e poi venitemi a dire: sono bellissimi, da subito, esteticamente, e poi anche dal punto di vista dei contenuti (va bene, non li ho letti tutti: mica mi pagano, che cazzo: avrò pure una vita sessuale); sono persone interessate alla letteratura, questi di Miraggi, che fanno cultura, che la muovono, la agitano, come si fa con certe bottiglie di spumante quando si vuole festeggiare qualcosa di veramente importante e propongono libri interessanti, ecco tutto, per cui vale la pena di spendere qualche euro. Tre: anche “Alice in gabbia” come "Io volevo Ringo Starr", di quell'illuminato di Daniele Pasquini, e come i pochi altri libri di cui ho parlato, è il libro di un’esordiente (con l’apostrofo perché, ve lo ricordo, stiamo parlando di un autore un po’ particolare, una specie di bestia mitologica che un po’ scrive e un po’ si controlla lo smalto sulle unghie, una creatura dello spazio profondo che non solo compone in italiano corretto ma sa anche sfilarsi un reggiseno senza togliersi il maglione: insomma, una femmina), un’esordiente che merita di essere conosciuta tra una cosa e l’altra di questa esistenza barbara.

“Alice in gabbia” (da questo momento “Alice”) è un bel romanzo breve che fa una cosa incredibile, cioè prende e rivoluziona un genere ed è per questo, secondo me, che merita d’essere conosciuto. Lo dico sempre, lo dirò anche stavolta: “Alice” non è un libro incredibile, fantastico, perfetto, necessario, non è un libro che riconcilia con la letteratura italiana, non è un miracolo, perché io non sono un cretino, la Gasbarro non è una cretina e qui non siete tra le note di Gordiano Lupi; “Alice” è un libro intelligentissimo e scritto molto bene che prende e rivoluziona un genere, ho detto, cioè riesce a parlare della Situazione Lavorativa in Italia senza adoperare il consueto, blando, noiosissimo e abusato cliché dell’operatore di call center, di lavoratore precario, di disperato studente alla ricerca di un orizzonte, semmai ambientando il tutto in una “provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte”, tanto per citare lo stesso Gordiano Lupi che così parla di “Acciaio” di Silvia Avallone, pensando di farle un favore. Infatti Arianna Gasbarro, in questo libro qui, “Alice in gabbia”, ci presenta una situazione lavorativa disperante e tipica del nostro Paese bello (piccolo spazio pubblicità) elevando a protagonista della storia, però, una tizia con un contratto ATI, cioè A Tempo Indeterminato. Miracolo! Rivoluzione! Venghino siori, venghino! Non c’è mica il trucco: la Gasbarro fa quello che deve fare usando un personaggio brillante, senza patemi, depressioni, genitori moribondi in carrozzella, fratelli spastici, autistici, juventini o negri, anzi, perfino con una laurea in tasca e un contratto ATI, inserendola in un ambiente addirittura piacevole, tipo Firenze, non certo una “provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte”, anche perché per la provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte ci sono già i fratelli Muccino a fare gli esegeti.

Mentre il tempo passa.

[pubblicato il 31 dicembre 2010]

Facciamolo, come tutte le volte, non un compendio, non un riassunto, non una celebrazione dell’anno che è stato, ma un quarto d’ora preso nel pugno e tenuto stretto, un quarto d’ora di ricreazione, in cui suonare un po' di jazz, sì, un po' di jazz letterario, con quel pizzico di improvvisazione quanto basta, perché è dai tempi di “Casablanca” che si sa, questo fatto dell’improvvisazione, da quando Sam, il pianista del Rick’s Cafè, si lasciò convincere da Ingrid Bergman a suonare quella vecchia canzone, pure se non se la ricordava tanto bene, pure se non aveva certezza dei tasti da premere.

Ecco chi vorrei essere un bel giorno: vorrei essere Sam, il pianista del Rick’s Cafè, vorrei indossare quel completo assurdo, che sembra argentato, o forse dorato, comunque cangiante, come il ventre di un pesce che sbatte per la sopravvivenza contro il legno di prua, vorrei parlare con tutti i verbi all’infinito, non ricordare bene canzone eppure suonare lo stesso perché essere quello mio lavoro, mia vita, cioè suonare al Rick’s Bar, intrattenere clienti e sorridere sempre pure se cose a casa andare male, mostrare la mia fila di denti bianchissimi e incassare mance e complimenti con la medesima nonchalance, vorrei essere Sam, un bel giorno, vorrei anche io non ricordarla bene, eppure ricordarla, alla fine, quella canzone, quella che fa la la la la la, sapete anche voi di cosa sto parlando, ricordarla e vedere formarsi nello sguardo di chi me l’ha implorata uno strato di sottile rassegnazione. Perché ecco cosa si impara alla fine, che tutti i sentimenti positivi che crediamo di provare altro non fanno se non esaltare la nostra mortalità. Noi moriamo ogni volta che un grandioso istante s’è trasformato in fotografia, ogni volta che una battuta divertentissima ha finito di farci ridere, ogni volta che il nostro amico migliore ha chiuso lo sportello della macchina per darci l'ennesima buonanotte, ogni sensazione di Perfetta Vita ci restituisce per intero il profilo della nostra destinazione, cioè la morte. La sto suonando, signorina Ilsa, anche se è una musica triste, la sto suonando per come ricordare, mia testa un poco stanca, ma voi capire, quest’anno essere stato lungo, faticoso, dispendioso: sarebbe bello, sì sì sì, essere Sam, in quella divisa entusiasmante, su uno sgabello seduto, dentro un locale elegante, circondato da ricche signore che fumano sigarette lunghe e sottili. Sarebbe bello vederli tutti ballare, in circolo, guardare le gonne svolazzare, telecomandate dalle dita sui tasti bianchi e neri, inclinare la testa per salutare chi passa, bello sarebbe essere la causa di tanta gioia e serenità, produrre una musica capace di rendere più audaci le bocche di signore e signori, oliare i discorsi e generare nuovi amori e passioni, conoscenze, intarsiare nell’anima dei presenti l’idea presuntuosa che sì, la vita può essere bella. Sarebbe magnifico essere Sam, e invece anche oggi è solo venerdì.

martedì 24 maggio 2011

"Zagreb" - Letteratura che evoca


«Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone».

È lo strepitoso incipit di “Zagreb”, dello scrittore italiano Arturo Robertazzi: a mio parere (il parere non di un individuo particolarmente intelligente, intendiamoci, ma di uno che, per curiosità e professione, legge tante “opere prime”) il miglior esordio letterario dell’ultimo anno, forse degli ultimi due (prima non ho memoria, potrei essere non del tutto sincero).
“Zagreb” è una storia romantica e tragica, cupa e “puzzolente” ambientata in uno scenario apocalittico: il conflitto dei Balcani all’inizio degli anni Novanta. Robertazzi fa una cosa, sopra ogni altra, col suo testo: “evoca”, non “informa” (per dirla con le sue stesse parole). Lui, che è soprattutto uno scrittore talentuosissimo, prima che un eccellente “uomo di inchiesta”, riesce nel miracolo narrativo di mettere una mano in testa al lettore e spingerlo sott’acqua lasciandogli il privilegio del respiro. Lo affonda, ma non lo annega.

Poche pagine sono necessarie allo scopo, circa 130: nessuna di queste sputa dati statistici o informazioni asettiche. Addirittura la guerra non si nomina mai, per lo meno non da un punto di vista didascalico: c’è un fiume, che è il Danubio, ma non viene detto. I personaggi hanno soprannomi, oppure nomi propri che però non sono quasi mai adoperati, se non quando muoiono, per esempio, e si svuotano, in un certo senso, abbandonano la maschera criminale di odio e tornano al livello dell'umano: la morte, sembra dirci Robertazzi, è un indulto. Anche in guerra.
Tutto è fumoso, tutto è non detto: c’è una certa impronta à la Saramago, ma pure questa non è detta. Di detto c’è una scrittura matura che non sa affatto di opera prima: la trama è semplice, shakespeariana. Ci sono due tizi che vorrebbero essere amici e che invece sono nemici, divisi solo da un conflitto, non dalle ideologie. Uno diventa preda, l’altro cacciatore: la scissione non è analizzata, non è approfondita, perché inesplicabile è la violenza, sebbene necessaria, intrinseca al meccanismo del mondo umano. A colpi di flashback, prima che di fucile, Robertazzi ci fa oscillare tra quel presente e un passato appena trascorso, un passato in cui i bar sono ancora in piedi e “stranieri di terre dell’Est contribuiscono al piacevole brusio delle genti, ma nella confusione qualcuno litiga. Sentiamo un vecchio gridare: «Ma cosa dici? Non sai che hanno ucciso dieci poliziotti? E chissà quanti sono i feriti!».

In “Zagreb” non c’è la guerra, ma c’è il gergo della guerra, l’ottica della guerra, l’odore della guerra, i rumori della guerra, il dolore della guerra, le conseguenze della guerra, la solitudine della guerra. Robertazzi “evoca”, quasi senza descrivere: ho capito che era bravo quando ho letto del protagonista che accarezzava la testa di un bambino, appena saltato in aria su una mina, i cui “capelli venivano via come buccia da una mela cotta”.
Ho capito che era bravo una volta di più quando l’ho conosciuto personalmente alla Fiera del Libro di Torino, dove ha presentato il testo. Parlandoci, in piedi, presso lo stand della sua casa editrice, Aìsara, una delle migliori realtà nazionali, mi ha spiegato che lui non è mai stato sul posto, non ha mai visto gli scenari che descrive (io pensavo di sì, eccome): di studi ne ha fatti tantissimi, ininterrotti e lunghi, ma gli occhi che lo hanno aiutato nella stesura dell’opera non sono quelli incassati subito sotto la fronte, ma quell’altro paio che certi di noi hanno subito sopra, gli occhi della mente, la fantasia, il genio nel senso di “creatore”.

Leggere “Zagreb” significa sottoporsi a un esercizio disturbante: c’è tantissima gente che muore, che muore male, violentemente, c’è la gratuità di certa violenza che solo con la guerra può essere spiegata. Tuttavia ogni cosa è organica allo sciogliersi dell’intreccio: non una sola volta l’autore si concede il lusso di adagiarsi sulla comoda branda della retorica, seppure di “pietà” nel romanzo ve ne sia tanta, nonostante un proscenio impossibile. Lo stesso protagonista, una bestia oscena ormai mossa solo dagli ordini voluti dal Comandante e dalla Nazione, si umanizza, per quanto possibile, arrendendosi anche alla commozione, in alcuni casi, senza che questo appaia incredibile. Robertazzi racconta la fatica della bestialità: essere disumani costa sforzo e questo sforzo, ogni tanto, apre una breccia perfino negli immondi. Un modo “nuovo” per narrare un conflitto dall’interno: un punto di vista così intimo che solletica il naso con un vibrato dal sapore di polvere da sparo e sangue. C'è il colpo di scena, il romanticismo, l'azione e l'avventura. "Zagreb" è un libro che diverte e invoglia a informarsi: è un libro che "fa" letteratura col passo svelto dell'intrattenimento.

Leggetelo: è la migliore opera d’esordio italiana dell’ultimo anno ed è così anche se (per adesso) non ve lo dice la televisione, non ve lo dice la Dandini o Fabio Fazio. Ve lo dico io, che non sono amico di Robertazzi e che sono mosso solo da autentica stima e ammirazione. Ve lo dico io che sono solo un lettore.
“Zagreb” è una straordinaria storia di amicizia e perdizione, di violenza e dannazione, di guerra e di vita, di sangue e di colori, di nero e di verde, di urla e di silenzi. “Zagreb” è scritto benissimo: è un libro che “sporca”, come dovrebbe fare tutta la buona letteratura. Niente che non vi faccia venire voglia di farvi una bella doccia, dopo, dovrebbe essere chiamato arte.
Buona lettura.

«Ma… se in Italia non c’è la guerra, cosa si fa?» chiese Emir.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire… se non c’è la guerra, i bambini cosa fanno?»
Ero perplesso. Possibile che Emir non ricordasse i tempi
senza guerra? Non osai chiedere altro, e continuai a parlare:
«La vita senza guerra è bellissima. La città è diversa, la gente
è diversa, persino il sapore dell’aria e il colore del cielo sono
diversi».
«Come? Non è blu?»
«Certo che è blu! Ma è tutto un altro blu. Un blu che
puoi ammirare senza paura di vederci scie bianche, senza
paura di sentirci esplosioni…»
«Un blu senza paura» disse Emir.

La seconda persona singolare.

Una giornata di merda deve finire meglio. Altrimenti è una giornata sprecata. E io non sopporto le giornate sprecate come mio nonno non sopportava i rimasugli di cibo nel piatto: "morsi della creanza” li chiamava. Mi fanno proprio male al fianco, le giornate sprecate, sembrano i dolori intercostali che si confondono per colpi apoplettici.
Perciò, credo, mi sono messo a cucinare: per convincermi. Ehi, si tratta solo di un dolore intercostale, vedi? Stai cucinando, bevi questo vino rosso che è avanzato: ogni tanto ti distrai guardando la televisione. Non può andare così male, va bene? Giorno presente, pianeta Terra, cucina di casa Sgambati: ecco che qualcosa qualcosa qualcosa mi riporta alla realtà. C’è “True Lies” alla televisione. L’hai visto su uno schermo ben più grande qualcosa come quindici anni fa e da allora hai fatto soprattutto due cose, sto dicendo a te: non sei morto e non sei impazzito (o, almeno, non sei morto e non sei impazzito abbastanza). Esulta, puoi esultare come Tardelli, se credi, se non fosse che stai tagliando la pancetta affumicata: l’hai scelta tra mille, è la tua pancetta affumicata, non è la pancetta affumicata di un altro, quindi resta concentrato sulla tua pancetta e lascia stare Tardelli che non è che abbia fatto poi chissà quale gran fine. Va bene, ammettiamolo: anche tu, come lui, hai passato periodi migliori, dal punto di vista creativo, perché è anche di questo che stiamo parlando, dello “scrivere”, altrimenti perché staresti scrivendo, ora?

Un indizio che mi fa capire di non essere in un periodo particolarmente ispirato: sto ricorrendo alla seconda persona singolare e questo si fa ogni volta che l’ispirazione va a farsi un giro a nuoto nella testa di un altro. È comodo scrivere in seconda persona singolare, tu tu tu, sembra un segnale di occupato, invece è liberissimo, la forma più facile possibile per architettare un discorso. Sei Stefano Sgambati, stai scrivendo queste righe per dimostrare a te stesso di saperlo ancora fare, visto che fuori di qui, di questa pagina, nota, o quello che è, sembra che tu stia incappando in qualche difficoltà, allora hai deciso di dare retta agli “psicologi della scrittura” quelli che consigliano, fermamente, di insistere, di provare altro, ma di insistere, così da instillare nel cervello la consapevolezza che il problema è solo tematico, non certo stilistico o ispirativo. Scrivo quindi sono: e la chiamano libertà? Dover essere qualcosa per essere: la fregatura è cominciata tempo fa, dai tempi di Cartesio. Essere costretti a pensare, per essere. Ho sentito di truffe meglio riuscite. Non penso, quindi sono: ecco come dovrebbe funzionare. Essere per essere non è una moltiplicazione, è una sottrazione. Bene, ciascuno di noi s’è scelto una prigionia: io se non scrivo non sono. Un bel cazzo per il culo se sei nato Sgambati e non Calvino. Quello che io non riesco a scrivere, un altro bravo sul serio lo esaurirebbe con uno starnuto. Ma taci, taci, torna alla seconda persona singolare, quella che risolve i problemi, come Mr. Wolf di Tarantino: la seconda persona singolare ti suona alla porta in perfetto orario, anzi un po’ in anticipo e ti dice eccomi qua, sono la seconda persona singolare e risolvo problemi. Bene, seconda persona singolare, se proprio vuoi darti da fare, portami alla conclusione di questi miei pensierini della notte.

Qualcosa da fare.

"Presi la bottiglia e andai in camera mia. Mi spogliai, tenni le mutande e andai a letto. Era un gran casino. La gente si aggrappava ciecamente a tutto quello che trovava: comunismo, macrobiotica, zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie di gruppo, orge, ciclismo, erbe aromatiche, cattolicesimo, sollevamento pesi, viaggi, solitudine, dieta vegetariana, India, pittura, scrittura, scultura, composizione, direzione d'orchestra, campeggio, yoga, copula, gioco d'azzardo, alcool, ozio, gelato di yogurt, Beethoven, Bach, Budda, Cristo, meditazione trascendentale, succo di carota, suicidio, vestiti fatti a mano, viaggi aerei, New York City, e poi tutte queste cose sfumavano e non restava niente. La gente doveva trovare qualcosa da fare mentre aspettava di morire. Era bello avere una scelta. Io l'avevo fatta da un pezzo, la mia scelta. Alzai la bottiglia di vodka e la bevvi liscia. I russi sapevano il fatto loro".
[Charles Bukowski]