giovedì 26 maggio 2011

2) Trilogia su David Foster Wallace - Un modo

Giusto ieri m’ha chiamato un caro amico e collega per domandarmi se, secondo me, fosse il caso di proporre un pezzo su DFW al giornale per cui scrive. “Perché no?”, gli ho risposto. “Pudore”, ha replicato lui: “Mi vergogno”. Vergognarsi di apprezzare DFW come autore è qualcosa che succede ai puri di mente. A me è capitata la stessa cosa, qualche settimana fa, quando, per ragioni che adesso preferirei non argomentare più del necessario, mi sono trovato ad entrare in uno dei miei locali preferiti accompagnato da una sventola con una minigonna più “mini” che “gonna” e con delle decolleté di vernice ai piedi che, per forza di cose, hanno riarrangiato il concetto di “vertiginoso”. DFW non è una sventola, anzi è un tipo losco e bruttarello e, di sicuro, non usa indossare decolléte di vernice, a meno che il suo lato oscuro - che già vanta tinte sepolcrali - non fosse più complicato di quello che immaginassi; però può indurre al pudore, come una bella gnocca che evidentemente non fa al caso tuo e che però hai scelto di corteggiare al solo uso e consumo delle gonadi e per carburare l’ego: tutto ti sembra ovvio e facile, finché capisci che prima di ammanettarla alla testiera del letto, ti ci dovrai far vedere in giro. In questo senso (e solo in questo senso) non c’è differenza tra una sventola e un cesso. Uno che legge DFW, avendo al contempo anche l’ardire di apprezzarlo, è di sicuro un cretino, uno che vuole darsi un tono, uno che non sapendone niente di letteratura, decide di farsi andare bene il primo scrittore “impegnativo” che incontra e così si mette la coscienza a posto alla voce “cultura” e, semmai, tiene pure la risposta pronta casomai gli dovessero domandare qualcosa a proposito del proprio “scrittore preferito”. DFW sembra fatto apposta per esser lo “scrittore preferito” di chiunque, anche se nemmeno si sa di cosa si sta parlando. Il problema di DFW è che, pure lui, prima di poterlo ammanettare alla testiera del letto, te lo devi leggere e le cose che DFW scrive sono parecchio strane, indossano, cioè, una minigonna assurda e tacchi altissimi, così che la gente facilmente possa pensarne male: guarda che zoccola, toglile quell’abitino, falla scendere dai quelle scarpe, struccala ed ecco che ti ritrovi con tua nonna. Di DFW si potrebbe dire la stessa cosa: levagli tutto quell’inutile realismo isterico, proibiscigli le metafore azzardate, le note a margine, le divagazioni a volte lunghe decine di pagine, semmai spuntagli pure un pochino quell’umorismo a tutti i costi ed ecco che l’hai messo al palo. Ecco che ti passa la voglia di ammanettarlo alla testiera del letto. Perché le “trame” di DFW sono quello che sono, spunti, tutt’al più, piccole intuizioni che poi lui allunga a dismisura grazie alla tecnica mostruosa, al citazionismo esasperato, al realismo isterico, alle divagazioni e a tutte le cose che ho già detto prima. Le minigonne, le decolléte di vernice. Le labbra gonfiate dal rossetto, il seno che prorompe dal vestito come pasta lievitata a sesso. C’è pudore a farsi vedere in giro con DFW.


Quello che ho capito io, a due anni dalla morte, una morte che mi fu annunciata via sms dallo stesso amico che ieri mi ha telefonato, chiedendomi se fosse o meno il caso di scrivere un pezzo su DFW per il giornale, quello che ho capito io, di DFW, oltre al fatto che è morto, ovviamente, è che, come tutti i geni di questo mondo, perché arrivati a questo punto del discorso possiamo pure cominciare a chiamare le cose con il loro nome, come tutti i geni di questo mondo, anche questo genio non poteva fare a meno di essere così com’era, e di scrivere così come scriveva, per la semplice ragione che gli piaceva da morire farlo e, credetemi, gli piaceva proprio da morire farlo, scrivere come scriveva, al punto che un brutto giorno si è legato intorno al collo una corda e si è dato la morte per impiccagione. Le “minigonne” di DFW non sono scelte, non sono le “stampelle” che un autore mediocre adopera per non far zoppicare più la propria opera, per usare una metafora cara ad Aldo Busi (un altro che per scrivere le cose che scrive le può scrivere solo come le scrive): le sue “minigonne” sono condanne. Uno come DFW è condannato ad essere com’è, a scrivere come scrive, perché per arrivare dove vuole arrivare, cioè per andare da A a B, per forza di cose sceglierà una strada poco maestra e molto azzardata. Per gusto, per ossessione estetica: uno chef non può fare a meno di ripulire il bordo del piatto con un canovaccio, prima di servirlo ai commensali. Se ti impicchi, secondo me, hai immediatamente ragione tu: significa che non l’hai mai fatto per darti un tono. Per quanto ne so, può anche darsi che darsi una morte simile facesse parte del suo progetto estetico. DFW era uno fissato con l’istanza estetica: la ricercatezza e la cura con cui scriveva le cose che la maggior parte della gente detesta, perché, appunto, le vede come pedanti decolléte di vernice, è stata talmente sfiancante per la sua testa, già fin troppo appassionata di filosofia e filologia, da dover dire, a un certo punto, basta. Se a DFW uno gli andasse a dire: “Senti, levati quella minigonna”, DFW risponderebbe: “Quale minigonna?”.

DFW ci si è impiccato con quella minigonna addosso e questo annulla tutte le speculazioni in merito: è facile che non piaccia, quest’autore, perché è antipatico e lezioso, ma ciò che non tollero sono quelli che lo accusano e che sostengono che le sue storie potrebbero essere raccontate anche senza tutti gli orpelli che ci mette. DFW, un uomo depresso fino all’inverosimile, cupo e inquieto, eppure divertentissimo e divertito, umoristico e umorale, amava così tanto scrivere che non ha mai scelto di farlo in altro modo da quello che gli interessava veramente. Al Muro di Berlino nessuno ha mai chiesto di essere un po’ più morbido: certe cose o le abbatti o sono destinate a rimanere così per sempre.

Oggi DFW è morto da due anni e questo è un conto che è destinato ad allungarsi per sempre, finché ci sarà qualcuno con la voglia di ricordarlo: ricordare uno scrittore, ricordare le cose scritte da uno scrittore, soprattutto se è morto, mi piace pensare sia un dovere di chi resta. Mi piace sempre dire che niente di più morto esiste di un artista morto. Quando succede che una domenica di settembre ti svegli venendo sapere che uno degli autori a cui dovresti essere più grato si è strappato la vita di dosso come una muta da sub, la prima sensazione è la rabbia, l’incomprensione, poi arriva lo struggimento, la solitudine, l’amarezza e lo sgomento. Viene certo immaginare che questo mondo debba averci per forza qualcosa di sbagliato, se uno come DFW si è appeso a una corda: la sensazione già c’era, intendiamoci, la sensazione che tra tutti i mondi possibili, proprio questo fosse il più fottuto di tutti, ma un DFW che oscilla a pochi ma decisivi centimetri dal pavimento trascende la sensazione e sconfina nella certezza. Ci siamo, m’è venuto da dire quel giorno di settembre, raggiunta la fase dello sgomento, e passate quelle della rabbia, dell’incomprensione, dello struggimento e dell’amarezza, ci siamo, ecco una nuova prova dell’insensatezza di questo posto del cazzo. Come farò a proseguire io stesso? Alla fine, eccoci qua, naturalmente un modo lo si trova sempre.

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