giovedì 26 maggio 2011

"Alice in gabbia": ovvero come leggere e gradire un libro scritto da una femmina pure se sei un maschilista.

Vi dico subito tre cose, a proposito di questo libro che si chiama “Alice in gabbia”: l’ha scritto una signorina, Arianna Gasbarro, quindi una donna, non so se avete capito, una femmina, e io, maschilista convinto, di quelli che va bene tutto, basta che la cena sia pronta alle otto, non saprei bene dire da quando mi sia persuaso che anche le donne possano scrivere libri, a questo mondo, ma forse - chissà - proprio leggendo libri come questo di Arianna. Due: si tratta di un libro pubblicato da un’altra di quelle case editrici di geni e di pazzi che a un certo punto prendono e si mettono a sfidare i dragoni alati davanti ai castelli delle principesse e il bello è che ci fanno pure il piacere di combattere con coerenza, coraggio e determinazione. Si chiama “Miraggi” questa casa editrice e proprio come altre case editrici di cui vi ho parlato (Intermezzi, per esempio, o Aìsara, o Del Vecchio per nominare le prime tre che mi vengono in mente non del tutto casualmente) fa le cose per bene e con l’onestà propria dei pazzi, appunto, o dei geni. Impugnate i loro libri e poi venitemi a dire: sono bellissimi, da subito, esteticamente, e poi anche dal punto di vista dei contenuti (va bene, non li ho letti tutti: mica mi pagano, che cazzo: avrò pure una vita sessuale); sono persone interessate alla letteratura, questi di Miraggi, che fanno cultura, che la muovono, la agitano, come si fa con certe bottiglie di spumante quando si vuole festeggiare qualcosa di veramente importante e propongono libri interessanti, ecco tutto, per cui vale la pena di spendere qualche euro. Tre: anche “Alice in gabbia” come "Io volevo Ringo Starr", di quell'illuminato di Daniele Pasquini, e come i pochi altri libri di cui ho parlato, è il libro di un’esordiente (con l’apostrofo perché, ve lo ricordo, stiamo parlando di un autore un po’ particolare, una specie di bestia mitologica che un po’ scrive e un po’ si controlla lo smalto sulle unghie, una creatura dello spazio profondo che non solo compone in italiano corretto ma sa anche sfilarsi un reggiseno senza togliersi il maglione: insomma, una femmina), un’esordiente che merita di essere conosciuta tra una cosa e l’altra di questa esistenza barbara.

“Alice in gabbia” (da questo momento “Alice”) è un bel romanzo breve che fa una cosa incredibile, cioè prende e rivoluziona un genere ed è per questo, secondo me, che merita d’essere conosciuto. Lo dico sempre, lo dirò anche stavolta: “Alice” non è un libro incredibile, fantastico, perfetto, necessario, non è un libro che riconcilia con la letteratura italiana, non è un miracolo, perché io non sono un cretino, la Gasbarro non è una cretina e qui non siete tra le note di Gordiano Lupi; “Alice” è un libro intelligentissimo e scritto molto bene che prende e rivoluziona un genere, ho detto, cioè riesce a parlare della Situazione Lavorativa in Italia senza adoperare il consueto, blando, noiosissimo e abusato cliché dell’operatore di call center, di lavoratore precario, di disperato studente alla ricerca di un orizzonte, semmai ambientando il tutto in una “provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte”, tanto per citare lo stesso Gordiano Lupi che così parla di “Acciaio” di Silvia Avallone, pensando di farle un favore. Infatti Arianna Gasbarro, in questo libro qui, “Alice in gabbia”, ci presenta una situazione lavorativa disperante e tipica del nostro Paese bello (piccolo spazio pubblicità) elevando a protagonista della storia, però, una tizia con un contratto ATI, cioè A Tempo Indeterminato. Miracolo! Rivoluzione! Venghino siori, venghino! Non c’è mica il trucco: la Gasbarro fa quello che deve fare usando un personaggio brillante, senza patemi, depressioni, genitori moribondi in carrozzella, fratelli spastici, autistici, juventini o negri, anzi, perfino con una laurea in tasca e un contratto ATI, inserendola in un ambiente addirittura piacevole, tipo Firenze, non certo una “provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte”, anche perché per la provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte ci sono già i fratelli Muccino a fare gli esegeti.



La cosa bella, che vorrei si capisse, di questo libro, è che questo libro rimane lo stesso un libro abbastanza disperato e cupo, che vi farà considerare, alla fine, l’ipotesi di emigrare verso un luogo meno ameno dell’Italia, il Bangladesh per esempio, solo che lo fa senza ami da pesca, senza valigette col doppio fondo e senza personaggi che sembrano rimestati in quella betoniera da cui tutti gli autori italiani vanno ormai puntualmente ad attingere. Alice, la protagonista di questo romanzo breve, è sì in gabbia, certo che vuole scappare, è vero non si sente benissimo, moralmente e umoralmente, però ci viene consegnata tramite delle tecniche nuove, proprio opposte alla letteratura di genere e a me questa cosa qui è piaciuta tantissimo, proprio tanto, al punto che poi l’ho dovuto scrivere anche all’autrice, secondo quell’esigenza propria di certi libri che una volta che li hai finiti senti la necessità di fare qualche domanda a chi li ha scritti. Questa prodezza tematica, poi giuro che chiudo, questa innovazione stilistica, concettuale, questo rovesciamento di prospettiva, viene accompagnato da una scrittura matura, consapevole e - cosa da me amatissima - incazzata a bestia. Arianna Gasbarro mi pare una tizia incazzata come un tavernaio livornese e questo fatto di essere incazzati si può esprimere benissimo in un libro anche senza cedere alla tentazione della provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte. Si può dipingere cupa amarezza anche usando colori vivaci: così sì che sei bravo, altrimenti cazzo ci vuole? Per esempio, a un certo punto del libro, precisamente a pagina 74, per gli amanti dei numeri e del Lotto, la protagonista, Alice, sta cercando di spiegarci e di spiegarsi i motivi per cui si ostini ad accettare una vita di ufficio amara e monotona, anziché seguire i propri istinti, e dice:

"Perché mai accetto che dei cretini mi impongano di restare qui fino alle 18? Io che ho spirito di sacrificio e che ho sempre centrato i miei obiettivi, io che non accetto compromessi nel mio tempo libero e se mi ritrovo con le mani infilate nei guanti da cucina, insaponata fino al gomito, e all’improvviso la radio mi tradisce e mette su una canzone dei Tazenda non mi perdo d’animo ma mi sfilo la ciabatta e cambio stazione con l’alluce, perché mai io dovrei farmi soggiogare da questo vile buffone e rimanere inerme mentre egli a zampate mi distrugge la vita?".

Capito che intendo? Non è che bisogna per forza fare le Anna Frank per insinuare nel lettore l’idea che, in effetti, non sia proprio tutto così adorabile nell’esistenza del protagonista del nostro romanzo. Questo passaggio qui sopra io l’ho adorato, mi uccide con l’ironia e mi lascia un po’ divertito e un po’ terrorizzato (soprattutto perché non sapevo che le radio potessero ancora trasmettere i Tazenda e infatti da quando l'ho scoperto non accendo più la radio a casa, si sa mai). Non sarà tragico come vivere in una provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte, però è meno "facile" e poi è tragico lo stesso, ve lo assicuro, e ve ne renderete conto pure voi, se leggerete il libro di Arianna Gasbarro fino alla fine. Tragico, però, in quel modo per cui è tragica la vita, serenamente, desolatamente, inevitabilmente - e adesso basta adoperare avverbi che finiscano con -mente altrimenti mi sentirò costretto ad inserirci pure "fortunatamente". Sempre a proposito di quanto mi sembri intelligente e incazzata quest’autrice, in grado di raccontare una storia benissimo e al contempo camminare anche sui tacchi (cioè, non proprio allo stesso tempo, voglio sperare, ma diciamo nell’arco della medesima vita ecco, che non è poco lo stesso), vi cito solo un altro piccolo passaggio, quasi al termine del libro, quando le carte sul tavolo sono pressapoco tutte girate e si sono già intuiti vincitori e sconfitti:

"Viviamo in un’illusione. Sotto l’asfalto davanti al nostro portone c’è davvero il terriccio, sotto i palazzoni questa è ancora campagna. Noi siamo fatti di carne e sangue e ossa e dopo la morte ci liquefaremo, la cameriera come il prestigioso avvocato, la contadina come il presidente degli Stati Uniti d’America. Siamo tutti identici e irrimediabilmente superflui. Proprio per rispetto agli embrioni cestinati e ai malati terminali che implorano di morire, abbiamo il dovere di trovare un senso alla nostra esistenza che è preziosa e ha valore di per sé. L’auto fica, il Milan allo stadio tutte le domeniche, la vacanza in Costa Smeralda non sono bisogni reali, ma solo la proiezione di ciò che un nostro simile vuole che noi desideriamo. E’ lui che lucra sui nostri desideri, sul nostro bisogno di trovare un senso. S’ingrassa e si arricchisce su questo nostro essere povere creature impaurite fatte solo di carne e sangue, tremebonde al pensiero del vuoto immenso che ci aspetta dopo la morte e bisognose di quel senso di sicurezza che ci dà camminare lungo una strada già tracciata”.

Ora se a voi questo non piace, non comunica niente, sebbene si faccia riferimento addirittura alla Costa Smeralda e dunque per niente a una provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte, allora non so proprio cosa dovrebbe piacervi (forse, in effetti, potrebbe piacervi “Acciaio” di Silvia Avallone, ora che ci penso, così torniamo a Gordiano Lupi per l'ultima volta e chiudiamo pure il giro). Ora: ci sarebbero altre tematiche interessanti, per esempio il “femminismo” trattato anche questo in maniera sapiente e originale, l’uso di questa riuscitissima metafora delle papere, i personaggi di “Ego” e di “Demonietto” e un eccellente finale lirico, spettrale, forse aperto, forse sbarrato, e popolato di terrificanti "clown", ma di questo - se volete - giacché qui lo spazio è logisticamente esaurito, se ne parlerà lunedì prossimo, il 6 dicembre 2010, durante la presentazione alla libreria “Altroquando” a Via del Governo Vecchio 80 a Roma (ore 19.30). L’autrice farà l’autrice, io farò da relatore: se voi farete da ascoltatori interessati, mi sa che avremo chiuso pure questo, di giro.
Nel frattempo, come sempre, buona lettura.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi spiace ma proprio non ci siamo... la Gasbarro mi sembra inutilmente incazzata e il dualismo tra apocalittici e integrati è più vecchio di Umberto Eco. In fondo tutti vorremmo evitare addirittura di lavorare e fare ciò che più amiamo con dedizione assoluta. D'altra parte i più non se lo potranno mai permettere e cercare di far credere, anche con un romanzo breve, che sia sufficiente sbattere la porta e stracciare un contratto, per risolvere il problema rasenta la truffa, sia pure editoriale. La metafora della timbratura in un Paese di assenteisti cronici e finti malati è ridicola. In certe aziende all'ingresso ci vorrebbe un cane lupo. E poi chi lavora sul serio il cartellino neanche lo calcola. Sul fatto di emigrare anche in Bangladesh invece sono pienamente d'accordo, se il tuo paese, la tua città non è grado di garantire un futuro valido e stimolante allora sì meglio andar via ma credo che i migliori lo stiano già facendo (anche nell'editoria dove l'Italia come al solito procede per famiglie, famigli e gruppetti vari) e andarsene senza menarsela tanto... nel libro invece Alice passa da Londra a Firenze suicidandosi professionalmente ancor prima di cominciare ma si può ?? Insomma nonostante la tua critica accorata questa opera prima non convince proprio speriamo nella prossima

Anonimo ha detto...

Caro Sgambati se proprio devi recensire un libro fallo con una recensione nuova, non con il copia incolla di un vecchio scritto. Questo risale al 2010 ed è stato postato il 26 maggio 2011 (c'é tanto di appuntamento per la lettura pubblica con più di un anno di ritardo).
Ma per favore ????!!!!!
Non è serio né per l'autore recensito né per chi ti legge...

Stefano Sgambati ha detto...

Ehhh, ti spiego (provo con l'italiano, dimmi se preferisci un'altra lingua): qui sto riversando i miei contenuti di Facebook, pubblicati, appunto, negli ultimi due anni.
Buongiorno eh.

Anonimo ha detto...

Grazie per la gentile e garbata spiegazione

Arianna Gasbarro ha detto...

Versi per il mio stalker

Versi per il mio stalker: Gaia, Anonimo, Anonymous, Herrietta, Donat65.

"Buffone in disguise"

Si acquatta nella rete
e come una capra sazia
concima la terra fertile
con le sue perle di sterco.

Arianna Gasbarro [Inedito, giugno 2011]

Panjisao ha detto...

Girovagando sulla rete sono venuto a conoscenza della nuova vita di Arianna.
Mi scuserà il padrone di casa se approfitto del suo spazio per mandare un caloroso saluto e un abbraccio all'autrice, augurandole ogni bene per il prosieguo della sua nuova carriera.