martedì 3 aprile 2012

Episodi di autocannibalismo assortiti.

“In uno dei vagoni di terza classe fin dall’alba si erano ritrovati seduti, l’uno di fronte all’altro, accanto al finestrino, due passeggeri entrambi giovani, entrambi quasi senza bagaglio, vestiti senza eleganza, con delle fisionomie piuttosto notevoli ed entrambi, infine, desiderosi di attaccar discorso. Se ognuno dei due avesse saputo che cosa proprio in quel momento li rendeva reciprocamente interessanti, certo si sarebbero entrambi meravigliati dello strano caso che li aveva fatti incontrare, seduti l’uno di fronte all’altro, in un vagone del treno Varsavia-Pietroburgo”. [F. Dostoevskij - L’Idiota] 
L’insistenza con cui questo tizio sta provando a far sentire all’intero vagone che l’albergo destinato ad ospitare lui e i suoi amici è sito in zona Piazza Affari, cioè a Via Borromei 5, e che loro stessi, questi quattro ragazzi romani rumorosissimi, sono inviati a Milano pagati dalla fantomatica azienda per cui lavorano, la cui identità è naturalmente rimasta segreta al gentile pubblico per un lasso di tempo pari a cinque o sei minuti (una nota casa di produzione televisiva), è commovente. Non fosse che avrei voglia di ammazzarlo mi alzerei per chiedergli un autografo. La gente vuole farsi vedere, la gente esige di manifestare al prossimo una condizione che ritiene evidentemente privilegiata, la gente esiste solo se c’è una claque, la gente dentro a un treno esprime il peggio di sé, perché il treno, rispetto a un aereo, per esempio, è ancorato a terra, fa meno paura, agevola la conversazione, non soffre di decolli e non soffre di atterraggi, non ha turbolenze, non esistono vuoti d’aria: senza quel migliaio di chilometri di altezza tra sé e la terraferma, la gente riesce molto meglio a comportarsi in maniera naturale e, dunque, a dare il peggio di sé. La considerazione della morte imminente non è preponderante, in treno, rispetto a tutte le altre cose che si possono fare nel frattempo. È vero, questa non preponderante considerazione della morte imminente da parte del tizio, lui tenderebbe a riconsiderarla subito se solo sapesse cosa si agita dentro la mia testa, che non sono un tipo violento, eppure gli tagliuzzerei eccome i legamenti del malleolo strisciando come un ninja lungo la carrozza numero undici, masticandogli poi le dita dei piedi fino a dissanguarlo, sputacchiando sui suoi amici conniventi unghie, cartilagini, epidermide e richieste di perdono tardive, e tutto questo io non lo sto scrivendo avendolo pensato adesso, cioè a viaggio finito, durante la fase della valutazione postuma degli eventi accaduti (la ruminazione), ma perché l’ho pensato mentre tutte queste cose succedevano, cioè sul treno, in viaggio, distratto e disturbato oltre ogni logica di sopportazione, anziché poter leggere l’ultimo di Murakami, che pure mi ero portato nello zaino, nonostante il chilo e mezzo di peso, diobanana.


Il fatto è che non ti voglio sentire, hai capito, figlio di puttana, non ti voglio sentire, non me ne frega niente di quello che devi fare a Milano, non mi importa un cazzo che mentre eri nel vagone ristorante ti hanno chiamato cinque persone, ben cinque persone, lo hai stigmatizzato per due minuti buoni, come se io non avessi amici, come se nessuno, su quel treno, carrozza undici, avesse amici, lo hai detto e ripetuto, ai tuoi compagni di viaggio - ribadisco: conniventi - sottolineando che tra questi cinque “disturbatori” lampeggiava anche il nome di Rosi, di genere sessuale femminile, la cui presenza nell’elenco di chiamate senza risposta starebbe a significare, secondo la tua ostentata eloquenza, le velleità sessuali di quest’ultima nei tuoi confronti, come se il semplice affermare ciò potesse rendere cieco il sottoscritto, impedendogli di volgere leggermente il capo verso la tua persona e notare le forme del tuo corpo - grassone pelato nano di merda vestito malissimo con una felpa rossa e dei jeans il cui orlo appare ormai talmente liso a forza di essere calpestato dalle tue suole senza destinazione da sembrare masticato - come se la tua prosopopea, insomma, fosse concepita apposta per non dare il tempo alla tua forma di risaltare inevitabilmente ai miei occhi e a quelli di tutti gli altri viaggiatori, portandosi appresso il carico dell’ovvia sentenza, cioè che Rosi, oh Rosi, col cazzo che ti aveva chiamato - se ti aveva chiamato - per esprimerti il suo compiacimento sessuale; Rosi, molto probabilmente, aveva sbagliato numero, a meno che, intendiamoci, non fosse anche lei, Rosi, una Volvo fatta persona.

Ma non voglio cedere al razzismo antropologico (mi dicono che l'ho già fatto). Non voglio arrendermi al solipsismo: faccio un passo indietro. Suggerisco a me stesso che anche io, come tutti, ho bisogno di un pubblico, perfino in un treno, altrimenti perché avrei scelto i vestiti con cura stamattina? Guardo le mie unghie curate, mi ricordo che giusto ieri sera ho tagliato i capelli. Dove finisce l’istinto dell’educazione e dove comincia la fascinazione del palcoscenico? Va bene, faccio un passo indietro: forse Rosi non è tanto male. Forse c’è stato un tempo, dieci anni fa, in cui è stata magra e le sue gonne facevano girare i passanti ai semafori. È un ragionamento che fila, è un pensiero che mi fa sentire una persona migliore, è un impulso elettrico che mi spinge a riprovare con la lettura di Murakami, considerato anche un ritrovato silenzio. Siamo tutti uguali, in fondo: è sempre stato il mio credo, perché mai, allora, dovrei decidere di tradirlo proprio adesso, su questo veicolo che taglia la pianura padana quasi a trecento chilometri orari? Io lo ammiro, costui, cerco davvero di convincermene, tra le 15.08 e le 15.10, quando vengo a sapere dell’esistenza nel suo portafoglio di due biglietti da visita, guarda caso recanti preziose informazioni sul suo avanzatissimo stato di carriera e che lui insiste per mostrare e raccontare agli amici (e perché non a tutto il resto del treno!?), i quali amici - ormai ne sono convinto - sono stati da lui assoldati e pagati per dargli corda, per dare modo a quelle parole di emigrare da A (la sua glottide) e raggiungere B (il mio pericondrio). Il problema sta in questo percorso, perché è lì, tra A e B, che il libro che sto leggendo finisce un’altra volta sottosopra sul tavolino del Frecciarossa e io mi rendo conto che a darmi davvero fastidio non è tanto il comportamento intollerabile di questo individuo, quanto la minima possibilità che anche io sia uguale a lui, o che lo sia stato almeno una volta nella vita, o che possa esserlo, anche una sola volta, in futuro, oppure che i miei figli possano assomigliargli e fare esattamente così, tra trentacinque anni, su un treno a velocità sonica. Il confine tra il disgusto per l’opposto e la paura di riconoscervi noi stessi è orribilmente sottile, ci si impiega un niente per attraversarlo. Il pensiero che qualcuno - a maggior ragione se sconosciuto - ci stia trovando affabili o affascinanti o intelligenti o fortunati o incredibilmente invidiabili è una droga irrinunciabile per un sacco di persone.

Mi viene in mente Milan Kundera e la sua teoria del pubblico:

"Tutti noi abbiamo bisogno che qualcuno ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere potremo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini desidera lo sguardo di un pubblico [...]. La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti. Si tratta degli instancabili organizzatori di cocktail e di cene [...]. C’è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. La loro condizione è pericolosa quanto quella degli appartenenti alla prima categoria. Una volta o l’altra gli occhi della persona amata si chiuderanno e nella sala ci sarà buio [...]. E c’è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori". 

Rosi, che l’aveva chiamato, se l’aveva chiamato, per sapere come andasse il viaggio, o che cosa stesse facendo, o a che ora fosse quell’appuntamento, lo sapeva o non lo sapeva di essere parte integrante di una messinscena, la messinscena del quotidiano esistere, la messinscena della sopravvivenza? Sarà al corrente, Rosi, che il mio compagno di carrozza l’ha adoperata come faretto per il suo personalissimo impianto di illuminazione? Ne siamo al corrente, tutti, quando questo ci succede, in qualità di vittime, e quando questo lo facciamo succedere, in qualità di attori? Anche io preferisco gli “occhi anonimi”: quelli conosciuti mi generano ansia. Davanti a chi mi conosce già mi sembra sempre di dovermi comportare com’è lecito che loro si aspettino: il che mi rende come? Falsato o più autentico? Mi rimetto sulle pagine di Murakami, ma dopo poche righe la lente biconvessa del cristallino perde nuovamente il fuoco e i caratteri scuri diventano sgocciolanti righe nere private del senso: non è colpa mia se l’individuo del treno sta urlando, letteralmente urlando, giuro, anche di questo non ho colpa, non sto cedendo alla facile tentazione dell’iperbole, l’individuo-del-treno-sta-strillando come se uno scherzo di prospettiva gli proponesse i suoi interlocutori distanti chilometri, non è colpa mia se la sua voce arriva così altisonante alle mie orecchie e non è colpa mia nemmeno il pensare che codesto mio simile lo stia facendo consapevolmente, ben sapendo di attirare l’attenzione con la violenza del volume, non è colpa mia ma forse nemmeno colpa sua, se è vero che tutti abbiamo bisogno di un poubblico, ma il fatto che stia urlando a gran voce, e non il racconto comune di un pomeriggio trascorso da Ikea, ma l’imminente incontro con un noto imprenditore del nord, pronto a finanziare un progetto apparentemente interessantissimo e innovativo (lui adopera almeno quindici volte la parola “geniale”), almeno questo fatto non può essere casuale, non fosse altro che questo fatto arriva a me con la precisa intenzione di farlo, percorre a falcate lo spazio tra la sua glottide e il mio pericondrio, con una consapevolezza spavalda e chirurgica, ed ecco perché, secondo me, avendo finalmente a disposizione la giusta tecnologia, hanno inventato i treni ad alta velocità: perché, a un certo punto, se non si vuole impazzire, o se comunque si vuole finire di leggere l’ultimo libro di Murakami senza interruzioni, o senza pensare di assomigliare tantissimo al proprio peggior nemico, è necessario arrivare, c’è poco da fare.

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