«Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone».
È lo strepitoso incipit di “Zagreb”, dello scrittore italiano Arturo Robertazzi: a mio parere (il parere non di un individuo particolarmente intelligente, intendiamoci, ma di uno che, per curiosità e professione, legge tante “opere prime”) il miglior esordio letterario dell’ultimo anno, forse degli ultimi due (prima non ho memoria, potrei essere non del tutto sincero).
“Zagreb” è una storia romantica e tragica, cupa e “puzzolente” ambientata in uno scenario apocalittico: il conflitto dei Balcani all’inizio degli anni Novanta. Robertazzi fa una cosa, sopra ogni altra, col suo testo: “evoca”, non “informa” (per dirla con le sue stesse parole). Lui, che è soprattutto uno scrittore talentuosissimo, prima che un eccellente “uomo di inchiesta”, riesce nel miracolo narrativo di mettere una mano in testa al lettore e spingerlo sott’acqua lasciandogli il privilegio del respiro. Lo affonda, ma non lo annega.
Poche pagine sono necessarie allo scopo, circa 130: nessuna di queste sputa dati statistici o informazioni asettiche. Addirittura la guerra non si nomina mai, per lo meno non da un punto di vista didascalico: c’è un fiume, che è il Danubio, ma non viene detto. I personaggi hanno soprannomi, oppure nomi propri che però non sono quasi mai adoperati, se non quando muoiono, per esempio, e si svuotano, in un certo senso, abbandonano la maschera criminale di odio e tornano al livello dell'umano: la morte, sembra dirci Robertazzi, è un indulto. Anche in guerra.
Tutto è fumoso, tutto è non detto: c’è una certa impronta à la Saramago, ma pure questa non è detta. Di detto c’è una scrittura matura che non sa affatto di opera prima: la trama è semplice, shakespeariana. Ci sono due tizi che vorrebbero essere amici e che invece sono nemici, divisi solo da un conflitto, non dalle ideologie. Uno diventa preda, l’altro cacciatore: la scissione non è analizzata, non è approfondita, perché inesplicabile è la violenza, sebbene necessaria, intrinseca al meccanismo del mondo umano. A colpi di flashback, prima che di fucile, Robertazzi ci fa oscillare tra quel presente e un passato appena trascorso, un passato in cui i bar sono ancora in piedi e “stranieri di terre dell’Est contribuiscono al piacevole brusio delle genti, ma nella confusione qualcuno litiga. Sentiamo un vecchio gridare: «Ma cosa dici? Non sai che hanno ucciso dieci poliziotti? E chissà quanti sono i feriti!».
In “Zagreb” non c’è la guerra, ma c’è il gergo della guerra, l’ottica della guerra, l’odore della guerra, i rumori della guerra, il dolore della guerra, le conseguenze della guerra, la solitudine della guerra. Robertazzi “evoca”, quasi senza descrivere: ho capito che era bravo quando ho letto del protagonista che accarezzava la testa di un bambino, appena saltato in aria su una mina, i cui “capelli venivano via come buccia da una mela cotta”.
Ho capito che era bravo una volta di più quando l’ho conosciuto personalmente alla Fiera del Libro di Torino, dove ha presentato il testo. Parlandoci, in piedi, presso lo stand della sua casa editrice, Aìsara, una delle migliori realtà nazionali, mi ha spiegato che lui non è mai stato sul posto, non ha mai visto gli scenari che descrive (io pensavo di sì, eccome): di studi ne ha fatti tantissimi, ininterrotti e lunghi, ma gli occhi che lo hanno aiutato nella stesura dell’opera non sono quelli incassati subito sotto la fronte, ma quell’altro paio che certi di noi hanno subito sopra, gli occhi della mente, la fantasia, il genio nel senso di “creatore”.
Leggere “Zagreb” significa sottoporsi a un esercizio disturbante: c’è tantissima gente che muore, che muore male, violentemente, c’è la gratuità di certa violenza che solo con la guerra può essere spiegata. Tuttavia ogni cosa è organica allo sciogliersi dell’intreccio: non una sola volta l’autore si concede il lusso di adagiarsi sulla comoda branda della retorica, seppure di “pietà” nel romanzo ve ne sia tanta, nonostante un proscenio impossibile. Lo stesso protagonista, una bestia oscena ormai mossa solo dagli ordini voluti dal Comandante e dalla Nazione, si umanizza, per quanto possibile, arrendendosi anche alla commozione, in alcuni casi, senza che questo appaia incredibile. Robertazzi racconta la fatica della bestialità: essere disumani costa sforzo e questo sforzo, ogni tanto, apre una breccia perfino negli immondi. Un modo “nuovo” per narrare un conflitto dall’interno: un punto di vista così intimo che solletica il naso con un vibrato dal sapore di polvere da sparo e sangue. C'è il colpo di scena, il romanticismo, l'azione e l'avventura. "Zagreb" è un libro che diverte e invoglia a informarsi: è un libro che "fa" letteratura col passo svelto dell'intrattenimento.
Leggetelo: è la migliore opera d’esordio italiana dell’ultimo anno ed è così anche se (per adesso) non ve lo dice la televisione, non ve lo dice la Dandini o Fabio Fazio. Ve lo dico io, che non sono amico di Robertazzi e che sono mosso solo da autentica stima e ammirazione. Ve lo dico io che sono solo un lettore.
“Zagreb” è una straordinaria storia di amicizia e perdizione, di violenza e dannazione, di guerra e di vita, di sangue e di colori, di nero e di verde, di urla e di silenzi. “Zagreb” è scritto benissimo: è un libro che “sporca”, come dovrebbe fare tutta la buona letteratura. Niente che non vi faccia venire voglia di farvi una bella doccia, dopo, dovrebbe essere chiamato arte.
Buona lettura.
«Ma… se in Italia non c’è la guerra, cosa si fa?» chiese Emir.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire… se non c’è la guerra, i bambini cosa fanno?»
Ero perplesso. Possibile che Emir non ricordasse i tempi
senza guerra? Non osai chiedere altro, e continuai a parlare:
«La vita senza guerra è bellissima. La città è diversa, la gente
è diversa, persino il sapore dell’aria e il colore del cielo sono
diversi».
«Come? Non è blu?»
«Certo che è blu! Ma è tutto un altro blu. Un blu che
puoi ammirare senza paura di vederci scie bianche, senza
paura di sentirci esplosioni…»
«Un blu senza paura» disse Emir.
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