C’è una cosa che premetto sempre, prima di dare qualsiasi giudizio. E’ questa: io non sono nessuno, non chiedetemi pareri, a meno che non vogliate sapere qualcosa a proposito di Youporn. Sono contrario ai consigli, dati e ricevuti. Alla luce di ciò, mi piacerebbe parlare di un libro che ho da poco finito di leggere e ne vorrei parlare non perché sia un libro particolarmente bello (anche), ma perché è un libro scritto da un giovanissimo, edito da una casa editrice di geni (le parole sono importanti) e questi due elementi, messi insieme, valgono la pena di cinque minuti di lettura.
Il libro in questione si intitola “Io volevo Ringo Starr” (Intermezzi Editore) e l’autore è Daniele Pasquini. Allora, sentite, prima di tutto una cosa: non mi metterò qui a dire che questo libro, scritto da un poco più che ventenne, sia imprescindibile, necessario, urgente o scegliete voi un lemma da quella pozza lessicale insopportabile dove, quasi sempre (stavo per scrivere “spesso e volentieri”, poi ci ho ripensato), sguazzano censori e recensori. “Io volevo Ringo Starr” (da questo momento in avanti “Ringo Starr”) è un gradevole libretto che non cambierà il mondo, né pretende di farlo, e la mia onestà intellettuale preme adesso per dirvi che qualora vi rimanessero, nel borsellino, le ultime due banconote della vostra vita, ebbene, meglio sarebbe se vi compraste un testo qualsiasi di Aldo Busi.
“Ringo Starr”, ecco perché ne sto scrivendo, è un libro che si indirizza un po’ a tutti, ma soprattutto ai giovani: parla di giovani, ma lo fa in modo adulto. Apriti cielo: il libro di Pasquini fa una cosa rivoluzionaria che mi ha fatto aprire gli occhi. Si rivolge a un pubblico giovanile (non per forza giovanile, ma soprattutto giovanile: almeno secondo me) senza trattarlo da perfetto imbecille. Dico: ci voleva tanto? Dentro a “Ringo Starr” c’è un sacco di roba, messa proprio bene, per esempio c’è tanta filosofia, c’è un po’ di matematica, c’è un guazzabuglio d’amore e frustrazione, però quest’amore e questa frustrazione sono trattati senza l’abuso di luoghi comuni. Tanto per dire: un regista acclamato come Ozpetek o uno scrittore di fama mondiale come Paolo Giordano sono soliti trattare queste tematiche - Amore & Frustrazione - circa centomila volte peggio di Pasquini che, udite udite, non inserisce nel suo libro nemmeno un disadattato, nemmeno un frocio, nemmeno una lesbica, nemmeno un autistico e, miracolo!, nemmeno un’anoressica, men che meno una bulimica, niente di niente, giuro che non ci sono storie di disturbi alimentari in questo libro rivolto ai giovani, che parla di giovani, trattando però i giovani da adulti. La storia non ve la dico, perché odio parlare delle trame dei libri: comunque è tutta una specie di metafora musicale e vi dico, senza tema di smentita, che la chiusura del volume vale da sola il fatidico prezzo del biglietto. Pasquini con quel finale lì, che pure non mi era piaciuto prima dell’ultimo, ultimissimo paragrafo, m’ha fregato, m’ha fatto girare pagina convinto che ci fosse ancora almeno un pezzetto da leggere e invece no e questa cosa succede per un motivo ben preciso, precisissimo, studiato, calibrato, che - se amate la lettura e se avete la giusta curiosità che dovrebbe spettare ai vivi - non vi potete perdere. Lo voglio ripetere ancora, l’ho detto all’inizio: Pasquini, esattamente come me, non è Burroughs, non è niente: quelli come noi fanno il piacere all’umanità di lettori di essere onesti e di scrivere da tali, senza prendere per il culo.
Ho detto della conclusione del libro, allora, mi raccomando, non vi fate il torto di perdervela. Ho detto pure che fino a quell’ultimo, ultimissimo paragrafo, tale conclusione non mi stava piacendo e voglio spiegare pure questo, prima di passare all’ultima questione, anche questa già accennata in precedenza, che è quella dei giovani trattati da adulti. Dunque, il problema delle pagine finali del libro di Pasquini è che fanno piangere di commozione. Io odio la commozione: per me è un trucco da due soldi e spero, con queste mie parole, di non far dispiacere l’Autore, ma di consigliarlo e indirizzarlo verso una via più onesta, giacché ho detto, solo poche righe fa, che in effetti la cosa maggiormente grandiosa di “Ringo Starr” risiede proprio nel tasso di onestà. Le ultime pagine fanno piangere, il che non è male, intendiamoci: uno non è che deve per forza affrontare un libro come fosse un esercizio di scrittura creativa. Il libro, inteso come fruizione del, è soprattutto intrattenimento, quindi ‘fanculo, anche la commozione è divertimento (la Tamaro ci si paga il mutuo a botte di pornografia sentimentale, mica cotica) e allora ben venga tutto. Solo che siccome io a Pasquini gli voglio pure bene, allora questa cosa della commozione la voglio dire lo stesso: bravo Daniele, perché ti giuro che mi sono sentito un po’ stronzo a commuovermi davanti a quelle ultime pagine (e giuro che l’ho fatto, mi sono commosso, cioè leggevo e avevo gli occhi lucidi, ecco, così diamo il significato ai significanti), soprattutto perché, mentre mi commuovevo, pensavo che, porca troia, quelle cose le aveva scritte uno tipo di dieci anni più giovane di me e che, nonostante ciò, mi stava fregando alla grande. Solo che la commozione io non ce la metterai mai così esplicitamente in un testo narrativo, soprattutto se siamo alle pagine finali: si può far piangere non usando nemmeno una parola “commovente”. Si procede per immagini e se si è bravi (se si è bravi) l’effetto lacrimuccia arriva lo stesso, solo che il lettore non saprebbe dire perché. Ti faccio un esempio: la Tamaro, ritornando a lei, se descrive un incidente stradale, si sofferma sullo zainetto della povera vittima (provvidenzialmente un’adolescente tenerissima con le treccine e tanti bei vuoti a scuola) riverso sull’asfalto, magari semiaperto, ci aggiunge (davvero, lo fa) la pioggia che cade e la lacrima è fatta, infiocchettata, pronta per gli scaffali dei negozi. Tu non hai fatto questo, siamo d’accordo, minimamente, però tutta quella commozione inevitabile, proprio alla fine del tuo libro, m’è sembrata un mezzuccio, un mezzuccio meravigliosamente architettato, ma un mezzuccio. Una cerniera sulla schiena del mostro della palude che improvvisamente si rende visibile allo spettatore, per usare una metafora cara a Stephen King (un altro - genio! - che ogni tanto c’è cascato pure lui in questa cosaccia della commozione pret a porter); la prossima volta (spero presto, praticamente domani) voglio augurarmi che tu riesca a trovare un modo alternativo per farmi arrivare a quell’ultimo paragrafo, l'ultimissimo, quello che invece ti fa passare la commozione e ti consegna un sentimento che dovrebbe essere nell’ambizione di tutti gli scrittori moderni: la rabbia, la sorpresa, la frustrazione. Lì sì che mi hai fregato, ma m’hai fregato bene, senza trucchi, lì mi hai fatto un gioco con le carte ricordandoti prima di accorciarti le maniche della camicia.
Questo dovevo, alla voce “critica negativa”. Il resto, e così arriviamo all’ultimo punto, quello che prima ho solo sfiorato, è da applausi: ci si può rivolgere a un pubblico giovane senza trattarlo da perfetto idiota. Ce l’ha dimostrato Daniele Pasquini: si fottessero i Moccia di questo mondo e si fottesse tutta quella produzione di merda, colorata ed edulcorata che travisa i giovani, perché li tratta con faciloneria, cioè puntando più ai loro soldi che al loro cervello, disegnando così una pletora informe di imbecilli tutti chat e amori scolastici, dialoghi umilianti e questioni ormonali. Ma che, per caso Collodi quando scrisse Pinocchio pensò di agevolare la lettura, di renderla facile facile, per piacere ai giovani? E che, forse Stevenson aggiustò la mira, disegnando la sua isola del tesoro? E Melville e Defoe e Gianni Rodari e James Barrie e Hans Christian Andersen e Jules Verne e Omero? Cosa fecero costoro, scrivendo chi di avventure, chi di grandi guerre, chi di meravigliosi amori e personaggi fiabeschi? Si piegarono forse sulle loro ginocchia per scendere all’altezza dei giovani a cui (anche) si rivolgevano e farli salire in braccio? Giammai: pretendevano piuttosto che fossero i giovani, nel caso, a montare su tavoli e sedie per arrivare alla corretta prospettiva. Questo dovrebbe fare uno scrittore e questo fa Pasquini: non che il suo “Ringo Starr” sia costituito da un’epica avventurosa, mitica, non che ci siano navi fantasma, burattini di legno o isole che non ci sono, però è un libro su un gruppo di ventenni che suona il rock & roll, scritto in un linguaggio giovane, giovanile, ma non giovanilista. I lucchetti, ci dice Pasquini, quando salta da Schopenauer a Nitsche, chiudeteveli sulle palle, teste di cazzo. Sarebbe bello se le case editrici moderne, anziché trovare volti giovani e patinati intorno le cui gole avvolgere foulardes di seta viola altamente raccomandati durante le interviste dalla Dandini, cercassero tizi in grado soprattutto di scrivere, magari non all’altezza di Philiph Roth, chissenefrega, ma onestamente, andando da A a B senza per forza usare la corsia d’emergenza. Il libro di Pasquini, “Io volevo Ringo Starr”, non è un’auto blu coi lampeggianti accesi, ma una bella Twingo con la musica giusta dentro: vi porterà a destinazione senza gettarvi addosso gli insulti degli altri viaggiatori, senza zainetti riversi sulla strada, senza “Step”, chat e altre puttanate immonde. Pasquini usa il mezzo letterario, punto e basta, e badate che lo usa a un'età in cui, generalmente, la gente con una mano si fa le pippe e con l'altra gioca all'X Box (cose in cui, senza tema di smentita, eccelle pure il Nostro, per carità). Ci dovrebbe essere gente così - che fa cose così - sui divanetti rossi della seconda serata di RaiTre: invece ci ritroviamo con D’Avenia e il bello è che indichiamo quelle trasmissioni come avamposti di "libertà".
Incuriositevi, dico a voi: ogni volta che vedete un libro di un giovane scrittore pubblicato da una casa editrice non “mainstream”, pensate che dietro quella casa editrice non “mainstream” c’è un investimento di soldi autentici nei confronti di quell’autore, soldi prelevati da casse che, nella migliore delle ipotesi, risuonano a vuoto per diversi mesi all’anno, a fronte di sacrifici, impegno e colossale fatica, e che, proprio per questo, non è possibile che sia un investimento fatto a cazzo di cane. Se una casa editrice non “mainstream” (e non a pagamento, s’intende: qui parliamo di contratti editoriali professionali) investe su un autore sconosciuto, voi dovete moltiplicare per quattro quel coraggio e capire da soli che, a meno di colossali granchi (che ci sono e possono capitare), potete andare sul sicuro. Libri così non hanno bisogno di "stampelle" per funzionare, perfino la copertina è scarna e bianca, guardatela, non ci sono ami da pesca qui dentro, è una rivoluzione editoriale, quella dell'onestà a tutti i costi, quella dei contenuti: essere quello che si è dalla prima pagina all'ultima, vale anche per la vita, è un concetto che, in questo caso, costa 13 euro ma che, in genere, si tende a pagare assai più caramente.
Buona lettura.
1 commento:
correggi immediatamente quel cazzo di nitsche e poi andrò a comprarlo!
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