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mercoledì 14 dicembre 2011

Dalla Fiera del Libro di Roma, mi riporto uno Sciamano.

Lucian Dan Teodorovici ha scritto un piccolo capolavoro. Si chiama “Un altro giro, Sciamano” (Aìsara Edizioni, traduzione di Ileana M. Pop) e adesso voi uscite e andate a comprarlo.

Fine della "recensione".
Possiamo fare due chiacchiere.

Questo Teodorovici, che io ho avuto l’onore di conoscere durante lo scorso Salone Internazionale del Libro di Torino, è un grosso letterato romeno (grosso anche nel senso della stazza), riconosciuto in patria come uno tra i più interessanti scrittori contemporanei (ho scoperto che il suo ultimo libro, ancora inedito da noi, è stato salutato dalla stampa nazionale come “il miglior romanzo degli ultimi vent’anni”: minchia): qui in Italia è pubblicato da Aìsara, casa editrice di cui
ho già avuto modo di parlare relativamente a “Zagreb”, di Arturo Robertazzi: di Teodorovici ho letto anche “La casta dei suicidi”, che pure è molto interessante, ma è con questo “Un altro giro, sciamano” che mi sono veramente deciso a scriverne, perché quello che penso adesso, che l’ho appena finito di leggere, è che tutti voi dovreste fare lo stesso.

Questo romanzo parla di un tizio. Nient’altro.
Sua è la voce narrante, suo è il punto di vista. Ne facciamo la conoscenza tra i tavoli di un bar, mentre Leonard Cohen canta a ripetizione “Dance me to the end of love” e, insieme a lui, non si sa bene il perché, ne ripercorriamo improvvisamente la vita, la vita, quella cosa lì che succede tra le due famose estremità dello spettro organico dell’esistenza. Ogni capitolo sembra un racconto breve quasi quasi autosufficiente: un uso delle analessi e delle prolessi che farebbe venire voglia pure a Quentin Tarantino di battergli il cinque, a Teodorovici, una capacità scientifica sbalorditiva di non perdere mai il filo e di tenere a bada la concentrazione del lettore, personaggi originalissimi e dialoghi istericamente realistici, uno strano e, secondo me, nuovo minimalismo, che non toglie, non decostruisce ma, tutto al contrario, arricchisce, va a pescare in una pozza dove già sguazzò un certo Raymond Carver, superandolo col progresso letterario di questi ultimi quarant’anni, correggendolo, addirittura, migliorandolo, mi perdoneranno i puristi del grande scrittore americano. Ecco cosa succede in questo romanzo di Teodorovici, mentre il protagonista ci racconta chi è e, soprattutto, perché, dopo un paio di bicchieri di troppo, si ritrova fuori di quel bar, al freddo, col suo migliore amico, convinto che “da allora in poi la mia vita sarebbe cambiata completamente”.

Sentite (vi ricordate? La recensione è finita dopo cinque righe, noi qui stiamo chiacchierando), è capitato a tutti. Alla maggior parte: di bere troppo, una sera, e di sentirsi improvvisamente calati in una realtà alcolica piena di dettagli, piena di (false) speranze, piena di incredibili aspettative. A suon di Negroni, ormai qualcosa come sette anni fa, decisi insieme ad altri due amici di fare una vacanza pazzesca che, da sobri, non avremmo mai avuto nemmeno l'ardire di progettare. Da ubriachi troviamo il coraggio di dare baci e di dire cose e di lasciare parcheggiata la macchina laddove in condizioni normali non avremmo nemmeno pensato di posare il pensiero: ecco perché, ormai completamente andato, l’amico del protagonista, onorevolissimo compagno di bevute, gli dice a un certo punto: “Senti, sciamano, da questo momento basta, la nostra vita cambia. Te lo dico io, cambia proprio di brutto. Basta!”.

Così comincia il libro, con queste due persone che parlano, ubriachissime. Succedono un po’ di cose in questo bar, non tantissime ma abbastanza per farci desiderare (io l’ho desiderato) che Teodorovici non ci faccia mai più uscire da lì dentro. Invece giri pagina e Teodorovici, secondo un criterio bastardissimo che dovrebbe essere proprio di tutti gli scrittori bravi, non solo ti ci fa uscire, ma non ti ci farà mai più rientrare, sballonzolandoti per tutta la lunghezza della storia qua e là nel tempo e nello spazio, risalendo la spina dorsale di quest’uomo, di cui niente sapevamo prima e niente sapremo dopo ma che, nel frattempo, avremo imparato ad amare (e vi assicuro che prima della fine delle pagine avremo anche imparato a dare un nome e un perché a tutto quell‘alcol che stavano bevendo all’inizio, perché in effetti è di questo che parla questo libro, e cioè del perché due uomini relativamente giovani e relativamente affermati dovrebbero desiderare di distruggersi di alcol e di cambiare le proprie vite).

C’è un non so che di Carveriano, dicevo, solo che manca l’America. Manca completamente. La storia è molto precisamente localizzata: succede tutto in Romania, ci sono i nomi dei paesi, ci sono le caratteristiche geografiche di tutti i luoghi e, soprattutto, ci sono le abitudini, il folklore, le tipologie umane, i mestieri: “Un altro giro, sciamano” è anche un’interessantissima carrellata su questa straordinaria cultura.

Nel capitolo numero due si parla di trampoli e di feste paesane, nel capitolo tre all’improvviso siamo in vacanza e si parla di snorkeling, di mute in neoprene e di gelosia (pagine di un erotismo sotterraneo pazzesco), nel capitolo quattro si parla di giornalismo, di carte segrete, di “carnat” e di “caltabos”, nel capitolo cinque si parla di un bambino-lupo e, di nuovo, di gelosia, tutto all’interno di una camera d’albergo, nel capitolo numero sei la storia vira verso i toni del tradimento e si parla del potere della verità, nel capitolo sette si parla di zingari e di oche, di cultura gitana, di crescita e di violenza, nel capitolo otto siamo in un camion e si parla di trasporti, traffico e di aria fritta, fino a quando - proprio un attimo prima che tu-lettore ti domanderai quale caspita sia il punto - l’autore ci riporta al centro preciso degli eventi con un colpo di quelli che ogni tanto fa Federer sotto le gambe che tutti si alzano e urlano e si guardano annuendo e le signore si aggiustano la tracolla della borsa sulla spalla che è scesa per il troppo applaudire, nel capitolo nove (forse il più “carveriano” di tutti) c’è una grande gita e già da qui diventa più chiaro come Teodorovici ci stia spingendo (anche simbolicamente) verso la riva, riprendendo, mano a mano che ci si avvicina alla conclusione, tutti gli elementi disseminati nell’arco della narrazione, disponendoli su un tavolo come se il grosso del puzzle fosse già risolto e si trattasse ormai soltanto di piazzare i pezzi perimetrali, nel capitolo numero dieci c’è un tram che canta e tante, tante botte, nell’ultimo capitolo, infine, anche questo sufficientemente carveriano da ricordare in qualche modo il capolavoro “Cattedrale”, alcune persone stanno in una casa, tra cui il protagonista, naturalmente, che finora non ci ha mai abbandonato, ma anche quell’altro tizio, quello che all’inizio, in quel bar con Leonard Cohen, si diceva convinto che la loro vita sarebbe cambiata, eccetera eccetera, e va a finire che si nomina un documentario su un incidente ferroviario che vi giuro vi farà sentire una specie di rumore, come di una zip che si chiude, perché quello sarà il costume di scena che si sigillerà definitivamente intorno al corpo dell’attore, facendone perdere per sempre le sembianze umane: ta-dan, vi dirà a quel punto Teodorovici, ecco qua l’effetto speciale completato, ecco perché io sono lo scrittore e voi siete i lettori, ecco perché questa storia adesso è veramente completa. Ecco perché questo libro è un vero libro.

Un piccolo capolavoro, sul serio.
Una prova magistrale di costruzione di una trama e di solidità generale della struttura. Il tutto calato in uno scenario originale e fascinoso che non ha nulla del realismo della provincia americana a cui una letteratura simile ci aveva abituato.

Tante chiacchiere per tornare all’inizio: Lucian Dan Teodorovici ha scritto una cosa bellissima: a me è venuta voglia di essere il protagonista della sua opera. Di vivere nel suo piccolo mondo. Siate anche voi, per un po' di tempo, qualche altra cosa. Questo autore è formidabile a centrare l'impresa letteraria più bella di tutte: mettervi addosso un travestimento senza che ve ne possiate accorgere. Ritrovarsi all'improvviso con le brache alle ginocchia in mezzo alla strada: ecco che cosa dovrebbe fare sempre la letteratura ed ecco che cosa fa sicuramente in questo caso "Un altro giro, sciamano".

martedì 24 maggio 2011

"Zagreb" - Letteratura che evoca


«Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone».

È lo strepitoso incipit di “Zagreb”, dello scrittore italiano Arturo Robertazzi: a mio parere (il parere non di un individuo particolarmente intelligente, intendiamoci, ma di uno che, per curiosità e professione, legge tante “opere prime”) il miglior esordio letterario dell’ultimo anno, forse degli ultimi due (prima non ho memoria, potrei essere non del tutto sincero).
“Zagreb” è una storia romantica e tragica, cupa e “puzzolente” ambientata in uno scenario apocalittico: il conflitto dei Balcani all’inizio degli anni Novanta. Robertazzi fa una cosa, sopra ogni altra, col suo testo: “evoca”, non “informa” (per dirla con le sue stesse parole). Lui, che è soprattutto uno scrittore talentuosissimo, prima che un eccellente “uomo di inchiesta”, riesce nel miracolo narrativo di mettere una mano in testa al lettore e spingerlo sott’acqua lasciandogli il privilegio del respiro. Lo affonda, ma non lo annega.

Poche pagine sono necessarie allo scopo, circa 130: nessuna di queste sputa dati statistici o informazioni asettiche. Addirittura la guerra non si nomina mai, per lo meno non da un punto di vista didascalico: c’è un fiume, che è il Danubio, ma non viene detto. I personaggi hanno soprannomi, oppure nomi propri che però non sono quasi mai adoperati, se non quando muoiono, per esempio, e si svuotano, in un certo senso, abbandonano la maschera criminale di odio e tornano al livello dell'umano: la morte, sembra dirci Robertazzi, è un indulto. Anche in guerra.
Tutto è fumoso, tutto è non detto: c’è una certa impronta à la Saramago, ma pure questa non è detta. Di detto c’è una scrittura matura che non sa affatto di opera prima: la trama è semplice, shakespeariana. Ci sono due tizi che vorrebbero essere amici e che invece sono nemici, divisi solo da un conflitto, non dalle ideologie. Uno diventa preda, l’altro cacciatore: la scissione non è analizzata, non è approfondita, perché inesplicabile è la violenza, sebbene necessaria, intrinseca al meccanismo del mondo umano. A colpi di flashback, prima che di fucile, Robertazzi ci fa oscillare tra quel presente e un passato appena trascorso, un passato in cui i bar sono ancora in piedi e “stranieri di terre dell’Est contribuiscono al piacevole brusio delle genti, ma nella confusione qualcuno litiga. Sentiamo un vecchio gridare: «Ma cosa dici? Non sai che hanno ucciso dieci poliziotti? E chissà quanti sono i feriti!».

In “Zagreb” non c’è la guerra, ma c’è il gergo della guerra, l’ottica della guerra, l’odore della guerra, i rumori della guerra, il dolore della guerra, le conseguenze della guerra, la solitudine della guerra. Robertazzi “evoca”, quasi senza descrivere: ho capito che era bravo quando ho letto del protagonista che accarezzava la testa di un bambino, appena saltato in aria su una mina, i cui “capelli venivano via come buccia da una mela cotta”.
Ho capito che era bravo una volta di più quando l’ho conosciuto personalmente alla Fiera del Libro di Torino, dove ha presentato il testo. Parlandoci, in piedi, presso lo stand della sua casa editrice, Aìsara, una delle migliori realtà nazionali, mi ha spiegato che lui non è mai stato sul posto, non ha mai visto gli scenari che descrive (io pensavo di sì, eccome): di studi ne ha fatti tantissimi, ininterrotti e lunghi, ma gli occhi che lo hanno aiutato nella stesura dell’opera non sono quelli incassati subito sotto la fronte, ma quell’altro paio che certi di noi hanno subito sopra, gli occhi della mente, la fantasia, il genio nel senso di “creatore”.

Leggere “Zagreb” significa sottoporsi a un esercizio disturbante: c’è tantissima gente che muore, che muore male, violentemente, c’è la gratuità di certa violenza che solo con la guerra può essere spiegata. Tuttavia ogni cosa è organica allo sciogliersi dell’intreccio: non una sola volta l’autore si concede il lusso di adagiarsi sulla comoda branda della retorica, seppure di “pietà” nel romanzo ve ne sia tanta, nonostante un proscenio impossibile. Lo stesso protagonista, una bestia oscena ormai mossa solo dagli ordini voluti dal Comandante e dalla Nazione, si umanizza, per quanto possibile, arrendendosi anche alla commozione, in alcuni casi, senza che questo appaia incredibile. Robertazzi racconta la fatica della bestialità: essere disumani costa sforzo e questo sforzo, ogni tanto, apre una breccia perfino negli immondi. Un modo “nuovo” per narrare un conflitto dall’interno: un punto di vista così intimo che solletica il naso con un vibrato dal sapore di polvere da sparo e sangue. C'è il colpo di scena, il romanticismo, l'azione e l'avventura. "Zagreb" è un libro che diverte e invoglia a informarsi: è un libro che "fa" letteratura col passo svelto dell'intrattenimento.

Leggetelo: è la migliore opera d’esordio italiana dell’ultimo anno ed è così anche se (per adesso) non ve lo dice la televisione, non ve lo dice la Dandini o Fabio Fazio. Ve lo dico io, che non sono amico di Robertazzi e che sono mosso solo da autentica stima e ammirazione. Ve lo dico io che sono solo un lettore.
“Zagreb” è una straordinaria storia di amicizia e perdizione, di violenza e dannazione, di guerra e di vita, di sangue e di colori, di nero e di verde, di urla e di silenzi. “Zagreb” è scritto benissimo: è un libro che “sporca”, come dovrebbe fare tutta la buona letteratura. Niente che non vi faccia venire voglia di farvi una bella doccia, dopo, dovrebbe essere chiamato arte.
Buona lettura.

«Ma… se in Italia non c’è la guerra, cosa si fa?» chiese Emir.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire… se non c’è la guerra, i bambini cosa fanno?»
Ero perplesso. Possibile che Emir non ricordasse i tempi
senza guerra? Non osai chiedere altro, e continuai a parlare:
«La vita senza guerra è bellissima. La città è diversa, la gente
è diversa, persino il sapore dell’aria e il colore del cielo sono
diversi».
«Come? Non è blu?»
«Certo che è blu! Ma è tutto un altro blu. Un blu che
puoi ammirare senza paura di vederci scie bianche, senza
paura di sentirci esplosioni…»
«Un blu senza paura» disse Emir.