[pubblicato il 31 dicembre 2010]
Facciamolo, come tutte le volte, non un compendio, non un riassunto, non una celebrazione dell’anno che è stato, ma un quarto d’ora preso nel pugno e tenuto stretto, un quarto d’ora di ricreazione, in cui suonare un po' di jazz, sì, un po' di jazz letterario, con quel pizzico di improvvisazione quanto basta, perché è dai tempi di “Casablanca” che si sa, questo fatto dell’improvvisazione, da quando Sam, il pianista del Rick’s Cafè, si lasciò convincere da Ingrid Bergman a suonare quella vecchia canzone, pure se non se la ricordava tanto bene, pure se non aveva certezza dei tasti da premere.
Ecco chi vorrei essere un bel giorno: vorrei essere Sam, il pianista del Rick’s Cafè, vorrei indossare quel completo assurdo, che sembra argentato, o forse dorato, comunque cangiante, come il ventre di un pesce che sbatte per la sopravvivenza contro il legno di prua, vorrei parlare con tutti i verbi all’infinito, non ricordare bene canzone eppure suonare lo stesso perché essere quello mio lavoro, mia vita, cioè suonare al Rick’s Bar, intrattenere clienti e sorridere sempre pure se cose a casa andare male, mostrare la mia fila di denti bianchissimi e incassare mance e complimenti con la medesima nonchalance, vorrei essere Sam, un bel giorno, vorrei anche io non ricordarla bene, eppure ricordarla, alla fine, quella canzone, quella che fa la la la la la, sapete anche voi di cosa sto parlando, ricordarla e vedere formarsi nello sguardo di chi me l’ha implorata uno strato di sottile rassegnazione. Perché ecco cosa si impara alla fine, che tutti i sentimenti positivi che crediamo di provare altro non fanno se non esaltare la nostra mortalità. Noi moriamo ogni volta che un grandioso istante s’è trasformato in fotografia, ogni volta che una battuta divertentissima ha finito di farci ridere, ogni volta che il nostro amico migliore ha chiuso lo sportello della macchina per darci l'ennesima buonanotte, ogni sensazione di Perfetta Vita ci restituisce per intero il profilo della nostra destinazione, cioè la morte. La sto suonando, signorina Ilsa, anche se è una musica triste, la sto suonando per come ricordare, mia testa un poco stanca, ma voi capire, quest’anno essere stato lungo, faticoso, dispendioso: sarebbe bello, sì sì sì, essere Sam, in quella divisa entusiasmante, su uno sgabello seduto, dentro un locale elegante, circondato da ricche signore che fumano sigarette lunghe e sottili. Sarebbe bello vederli tutti ballare, in circolo, guardare le gonne svolazzare, telecomandate dalle dita sui tasti bianchi e neri, inclinare la testa per salutare chi passa, bello sarebbe essere la causa di tanta gioia e serenità, produrre una musica capace di rendere più audaci le bocche di signore e signori, oliare i discorsi e generare nuovi amori e passioni, conoscenze, intarsiare nell’anima dei presenti l’idea presuntuosa che sì, la vita può essere bella. Sarebbe magnifico essere Sam, e invece anche oggi è solo venerdì.
Anno 2010, ciao: che ti devo dire? Come dovrei guardarti se a malapena so da che lato appenderti? Ad appendere certi quadri non s'impara mai. Lungo, faticoso, dispendioso 2010: gennaio, febbraio, marzo, aprile, mi sembrano mesi lontanissimi, come se l’apertura delle mie braccia fosse condannata ad abbracci impossibili e i tendini e i muscoli stridessero nel tentativo: non fosse che il ricordare è fatto del materiale più elastico del mondo, m’aspetterei lo strappo. Maggio, giugno, luglio: che resta di tutto quel caldo che abbiamo creduto di soffrire? Che rimane delle tintarelle, delle scalette degli aerei, dei vuoti d’aria? Che resta degli abbracci e dei baci che si sono consumati, che resta di quei capelli profumati, delle dieci punture di spillo che abbiamo sentito dietro la schiena, quando con tutte e due le mani siamo stati toccati per la prima volta? Agosto, settembre, ottobre: io non ricordare bene, signorina Ilsa, molta acqua sotto i ponti, eppure mi pare di sentire un tenue sciabordìo come di una zattera che stia venendo a toglierci d'impaccio: non c’è mai un anno più bello dell’altro, questo è il fatto, questa è la zattera, tutti gli anni sono figli, è grazie a ciascuno di essi se siamo arrivati dove siamo, presumibilmente vivi, adeguatamente vispi, efficacemente desiderosi di tirare avanti un altro po’, ogni volta alla fine del corridoio con quella speranza strana, pericolosissima e quasi sempre illusoria che il meglio debba ancora venire. Che nella stanza più bella dobbiamo ancora entrare. Siamo piccole sacche di carne e sangue convinte di meritarci di più ed è con tale spirito avventuriero, guerriero, che ci immergiamo fino al naso nell’acqua che ci aspetta, tenendo bene in alto il nostro bagaglio, gli occhi puntati verso il prossimo ponte: non sembra forse, da quaggiù, ben più robusto ed elegante di quello appena abbandonato?
La distanza, quando si tratta di tempo, fa maturare i dettagli come arance gonfiate dal sole: ed ecco come andiamo avanti, tutti, anche i pessimisti. E’ forse per questo che ci ritroveremo, anche stavolta, con le gole infuocate e le bottiglie vuote, a rincorrere con gli sguardi i tappi stappati, perché in quell’arco disegnato nell’aria dal sughero noi ci leggeremo qualcosa, noi ci scorgeremo il nostro prossimo amore, il nostro prossimo successo lavorativo, la nostra prossima chemioterapia andata a buon fine, il nostro prossimo figlio, maschio per caritàdiddio. Mangiamo lenticchie, ci diciamo che lo zampone è un cibo commestibile, invece che ingoiare il rospo e inveire contro quella diceria che vuole il maiale proprio tutto tutto delizioso, comperiamo vestiti che non metteremo più, investiamo un capitale in trucco e parrucco, entriamo con arie marziali in case e locali del tutto identici a sabato scorso, ma a cui affidiamo la responsabilità del contesto. Sarà esattamente lì, infatti, che in capo a sei mesi, quando le cose saranno andate effettivamente meglio o peggio, ci ricollocheremo col ricordo e ci daremo degli illusi oppure dei buoni profeti, ci diremo che essere ottimisti qualche volta paga, oppure che è sempre la stessa storia e che, vabbè, anche per noi verranno momenti migliori. Novembre, dicembre, giorno presente: e adesso che siamo arrivati al nuovo ponte, adesso che possiamo tirarci via dall’acqua, salire sulla zattera e osservare per bene quello che ci è capitato durante il faticoso guado, prima di cominciarne un altro, che cosa ci racconteremo?
Io essere contento, signorina Ilsa, guado essere stato faticoso ma bello: gente, dovessi scegliere una parola, sceglierei gente, per indicare quello che è stato negli ultimi dodici mesi. E’ stato l’anno dei nuovi ingressi, delle persone che, facendomi l’onore di avvicinarsi a me, m’hanno reso la tempesta meno fitta. Libri, un’altra parola, quelli che ho letto e quelli che ho scritto, due, che m’hanno fatto entrare dentro un ambiente che fino all’anno scorso avevo solo sfiorato e che ho scoperto amare così tanto da risultarmi disperante, annientante, secondo il meccanismo che esponevo all’inizio, perché ogni momento di Perfetta Vita - e scrivere rappresenta il momento più alto che io possa produrre per me stesso in questo senso - ogni momento di Perfetta Vita è il riflesso della Morte nello specchio. Amici, un’altra parola, un altro sasso calpestabile nel guado, amici che quest’anno hanno magnificato la loro importanza, avvicinandosi, in certi casi, e allontanandosi in un caso specifico, almeno geograficamente, perché qualche volta la separazione può agire da collante. Amore, mettiamoci pure questa, di parola, anche se i sassi dell’amore sono tra i più traballanti del percorso e qualche volta ti fanno finire a bagno: conosciuto, quest’Amore, per un momento breve, sì, eppure ritrovato, perché questo è stato l’importante: percepire la brace accesa sotto la cenere, ricordarsi e ricordare agli altri, quando i gomiti s’arrendono e un boccale di birra forma un perfetto cerchio sul legno del bancone, che nessuna ferita subita, per quanto profonda, riesce a spegnere la capacità di incantarsi nuovamente davanti alla bellezza del materiale umano. Famiglia, un’altra parola che mi voglio portare sul prossimo ponte, perché i due anni più terribili, nauseanti, preoccupanti e difficili della mia vita in famiglia, anch’essi sono più dietro che davanti e dove adesso volge lo sguardo, anche se si tratta di un punto piccolissimo, riesco a intravedere i miei genitori stesi su una spiaggia, al sole, e non più in mare aperto, disperati, ad invecchiare senza l'ombra di ponti in lontananza.
Eccoci qua, alla fine, allora, perché, come dicono i cinesi, ogni fine è un nuovo inizio e va bene, l’anno nuovo, come tutti gli altri che sono già passati, altro non sarà, pure questa volta, che una giostra di giorni, un calcinculo di ore, settimane, madonne, incanti e disincanti. La fine di ogni anno è un esercizio retorico che voglio sentire di meritarmi, almeno questo, perché tutto sommato mi piace esistere e anche se un sacco di cose non le ho scelte io, mi sento abbastanza forte, imprudente e coraggioso per continuare su questa strada, cioè improvvisando, come quel Sam lì, che dentro il Rick’s Bar intonò una melodia alla signorina Ilsa, quella che faceva la la la la la.
Buon inizio, ci vediamo dall'altra parte.
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