Non riesco a seguire un dibattito, una conversazione, una lettura, è più forte di me, non ci riesco, lo giuro su dio, e questa volta non c’entra il feticismo, la perversione, l’ignominia dei miei sensi e dei miei gusti, ma non ce la faccio, mi distraggo, va a finire che non sento una sola parola di quello che il relatore seduto dietro al tavolo sta dicendo, se gli organizzatori non si sono presi la briga di spicciare su quel tavolo una tovaglia o un telo lungo abbastanza da arrivare a terra, così da coprire, da nascondere alla mia vista, i piedi di quel relatore o di quella relatrice. L’altra sera sono andato a seguire questa serata-evento (evento di che, poi?) in occasione della morte di uno scrittore che mi piace e di cui ho parlato anche troppo e che, dunque, non nominerò mai più, fino al prossimo 12 settembre, organizzata dai “tipi” (si dice così) di Minimum Fax, dei geni dell’editoria che hanno saputo tagliarsi uno spazio incredibile nell’ambiente, nonostante l’oligarchia annientante dei colossi “main stream”.
1) Martina Testa indossava degli anfibi neri, minacciosi, che le arrivavano ben oltre la caviglia, ma ben oltre, allacciati con una cura da marines, fino all’ultimo centimetro disponibile, come se si trattasse di attraversare il deserto del Gobi, o di esplorare la Terra del Fuoco camminando sulle punte, e non di presenziare a una piacevole serata di metà settembre dedicata a un tizio morto che in vita scriveva e scriveva bene. Questa signorina gradevolissima, che per i “tipi” di Minimum Fax fa la traduttrice e l’editor, ha letto un pezzo molto importante della produzione dello scrittore morto, uno dei pezzi più illuminanti che siano mai stati scritti nella storia di questa Terra (non sto esagerando) in merito al discorso “fruizione della televisione dall’utente medio”. E’ uno dei saggi di questo scrittore che io personalmente più adoro e bramo, solo che non ho sentito una cippa lippa di quanto la tizia stava leggendo, perché, appunto, si vedevano le scarpe, sotto al tavolo, giacché il telo che gli organizzatori avevano spicciato arrivava a malapena a lambire i quattro lati, perciò io non ho fatto altro che guardarle, non ho fatto altro che indugiare sulla posizione di quei piedi (la proprietaria li faceva ballare sulle punte, ogni volta che finiva un periodo e prendeva fiato, oppure ogni volta che doveva girare pagina) e così facendo, così comportandomi, non sono riuscito a carpire contemporaneamente anche il senso di quanto stava leggendo.
2) Edoardo Nesi, uno scrittore italiano che per i “tipi” di Minimum Fax fa il traduttore, ha letto un altro lungo pezzo tratto, questa volta, da uno dei libri più discussi di questo scrittore che è morto e che noi tutti, presenti all’evento, stavamo celebrando e io, di nuovo, non ho capito un cazzo, perché Edoardo Nesi teneva i piedi appoggiati per terra di taglio, con le piante che quasi quasi si toccavano l’un l’altra, come i piccoli piatti di una scimmietta ammestrata, e io potevo tranquillamente vederli e infatti posso dirvi adesso che lui tradiva una certa emozione ogni volta che la gente in sala rideva: in tali occasioni rimetteva entrambi i piedi ben poggiati a terra, facendo oscillare solo le ginocchia, salvo riportarli alla posizione precedente, una volta che la lettura poteva riprendere.
3) Francesco Piccolo non mi ha lasciato fiato: indossava degli strani sandali francescani, una cosa orribile, che dovrebbe essere proibita dalla legge, soprattutto agli uomini, ai maschi, perciò, nel suo caso, durante la sua lettura, anche questa molto divertente, la tragedia è stata doppia perché non solo potevo vedere le calzature ma anche l’imbottitura, nello specifico delle dita grassocce che si muovevano su e giù, animosamente, ogni volta che lui, a sua volta traduttore per i “tipi” della Minimum Fax, aveva un’esitazione, una balbuzie, un lapsus linguae. Francesco Piccolo prende coraggio dalle dita dei piedi, sappiatelo.
4) Vincenzo Ostuni, che è stato di gran lunga il più bravo a leggere, quello con la voce meglio impostata, anche lui seduto, con questi piedi tragicamente visibili sotto il tavolo, anche lui è stato un osso duro, perché indossava delle scarpe la cui suola era consumatissima e io vi garantisco che era proprio consumatissima, tipo che sembrava fosse arrivato fin lì a piedi, direttamente dal Texas. Per tutta la durata della sua lettura, anche questa presa da un saggio cla-mo-ro-so che l’autore morto aveva scritto per degli altri “tipi”, non di Mimimum Fax, ma di Harper’s Magazine, non ho carpito una sola sillaba, perché quelle suole consumate, che Ostuni, incredibilmente, riusciva a tenere ferme, immobili, come se nemmeno gli appartenessero, usurpavano tutta la mia attenzione che già era abbastanza in affanno per colpa di un tizio, grasso e capellone, che finora non ho mai nominato, accomodato una fila di seggiole più avanti, tutto impegnato a fare ai protagonisti dell’evento tantissime fotografie con una reflex dotata di obiettivo telescopico buono per riprendere Plutone con una certa definizione, senza mai cambiare posizione o inquadratura, al punto che io, stando dietro e potendo osservare il risultato degli scatti nel monitorino, ho subito pensato di non aver mai visto tante fotografie tutte uguali.
Così arriviamo all’ultimo oratore, ovvero (5) Christian Raimo: lui mi ha sorpreso, lo devo ammettere, non solo perché ha eseguito la lettura migliore della serata ma anche e soprattutto perché ha letto stando in piedi, con le gambe solo leggermente divaricate e il libro tenuto ben dritto davanti a sé. Ho potuto sentire così tutta la lettura, concentrato e attento, senza perdermene nemmeno un brano: ciò è stato possibile perché la postura di Raimo non consentiva fraintendimenti. L’attenzione veniva esercitata dal volto, dal busto e non dai quei maledettissimi piedi. Senza contare che il brano scelto, un racconto tratto da una raccolta di questo autore morto che noi stavamo celebrando, era di una bellezza talmente assoluta e, secondo me, indiscutibile, che perfino le foglie degli alberi m’è sembrato, a un tratto, si protendessero come per l’effetto del vento o forse per ascoltare, e addirittura il ciccione, seduto una fila di seggiole più avanti, giuro su dio che non ha scattato nemmeno una di quelle foto tutte identiche, rimanendosene con la Nikon in grembo che sembrava un feto disgraziato e morto.
E’ successa un’ultima cosa, prima della fine della serata che, non a caso, è coincisa con la lettura di Christian Raimo, questo scrittore che il sottoscritto trova disgustoso come un ramarro spiaccicato sotto un piede nudo: più o meno a tre quarti della lettura di tale racconto straordinario, che contiene passaggi di una bellezza lirica, strutturale, linguistica, simbolica e “sonora” così assoluti che dovrebbe essere immediatamente preso, il libro che lo contiene, e messo sugli inginocchiatoi delle Chiese del mondo al posto delle Bibbie, più o meno a tre quarti di questo racconto, è passato un aereo - giuro che è vero, potessi risvegliarmi domattina ed essere le scarpe di Christian Raimo - ed è stato quello l’unico momento in cui mi sono distratto, il tempo di tre o quattro righe, non di più, ma si sa che dentro la testa il tempo è relativo e sette o otto secondi all’interno possono equivalere ad anni luce, fuori. Così ho guardato l’aereo, mentre le parole di Raimo perdevano consistenza, e mi sono visto dall’alto, ogni tanto mi capita, dal punto di vista dell’aereo. Ho immaginato tutte queste persone, tra cui me, come capocchie di spillo, con le caviglie incrociate sotto le sedie e le braccia conserte, ad ascoltare uno dei racconti più belli mai scritti dall’essere umano; ho pensato a che cazzata immonda stavamo facendo, una puttanata, paragonata a tutti i problemi dell’universo, i disastri, le tragedie, eccetera: dei tizi sconosciuti tutti intenti ad ascoltare un altro tizio in piedi su un palco leggere della roba strana scritta da uno scrittore morto due anni prima e, niente, poi l’aereo è scomparso oltre l’orlo del cielo e io ho fatto giusto in tempo ad unirmi all’applauso finale.
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