Dal lavoro di questo straordinario giornalista hanno tratto due filmetti di genere di poco conto, come “Apocalypse now” e “Full metal jacket”, ma questo è un dato utile per incrementare le vendite. Un altro dato utile ad incrementare qualcosa, cioè l’attenzione, è questo: lo scrittore britannico John le Carrè ha definito “Dispacci” il più bel libro sulla guerra dopo l’Iliade. Il terzo ce l’ho già messo io, definendolo probabilmente il libro più intenso che mi sia mai capitato di leggere. Potrebbe bastare questo per invitarvi all'acquisto e alla lettura e a farla finita qui, ma se disponete di qualche minuto di tempo ancora, vorrei provare a farvi fare un giro un po' più lungo.
"Dispacci", infatti, è uno di quei testi in grado di restituirvi alla vita diversi da come vi aveva trovato. La potenza letteraria è spaventosa e la componente giornalistica altrettanto. C’è anche un’introduzione di Roberto Saviano, molto inutile, perché quasi subito il Nostro comincia a parlare di se stesso, riferendoci di quanto gli sia stato necessario “Dispacci” nella sua “personale guerra” e bla bla bla: però una cosa interessante la dice, cioè che dopo di questo, Michael Herr non ha mai più scritto un solo libro, niente, neanche una riga. Certo, ha collaborato alla sceneggiatura dei due capolavori di Coppola e Kubrik, ma quanto a libri, zero. Ho controllato, ed è vero. Questa cosa mi ha colpito tantissimo: l’efficacia letteraria di “Dispacci” è talmente evidente, assoluta, completa, che è come se questo scrittore si fosse sentito appagato, esaurito, “finito” già dopo questa sua prima e unica opera. Non mi pare di aver mai letto niente di nessuno che non abbia mai più scritto, dopo. Forse è per questo che nel suo libro c’è così tanto: perché c’è tutto. Tutto quello che voleva e doveva dire. Il massimo grado di sincerità possibile.
Leggetelo, dicevo.
Non solo vi informerà sulla guerra delle guerre, la più lunga e tra le più sanguinose della nostra storia, la guerra persa dagli americani, la guerra che, per paradigma, riesce ad incorporare tutte le altre, in quanto sublimazione della totale inutilità della guerra stessa, intesa come processo di “pacificazione”; non solo farà questo, ma vi calerà in un territorio altrimenti inesplorabile e inconoscibile, com’è quello della morte, della pazzia e della vita umana. “Dispacci” parla soprattutto di questo: è il primo libro della mia vita da cui abbia tratto un’impressione netta di “testimonianza dell’aldilà”. Secondo me (ora si udiranno dei tuoni in lontananza) è una specie di “Divina Commedia” dantesca: del Sommo si diceva che avesse conosciuto Inferno, Purgatorio e Paradiso tramite una specie di viaggio dell’anima, una sorta di "mesmerizzazione", e che fosse tornato a noi per poterlo raccontare: una missione divina, superiore. La medesima sensazione l’ho percepita col libro di Herr: è come se questi avesse ricevuto la possibilità di visitare il territorio che è “oltre” tutti noi, quello della morte, della pazzia, dell’irragionevole cattiveria pura, e di potervi fare ritorno per testimoniarcelo, per dirci: ehi, è così che funziona laddove voi non potrete mai andare. Ci sono io per dirvelo e adesso infatti ve lo dico.
Tante volte, terminato un libro, ho avuto voglia di telefonare all’autore, di chiedergli qualcosa. Finito “Dispacci” ho avuto voglia di abbracciare Michael Herr, perché l’opera che ci ha lasciato in eredità è scritta con un inchiostro che nessuno di noi potrà adoperare, mai, indipendentemente dalla tecnica, dalla maestria. È lo stesso territorio dei Baudelaire e dei Dostoevskij, solo che lui anziché andarci con lo spirito, con la testa, ci è andato col corpo. Herr fa cose semplicissime e incredibili, come raccontarci, finalmente, una volta e per tutte, di che cosa sa questo benedetto napalm. Ci racconta per filo e per segno cosa si prova quando si sentono i proiettili colpire la fiancata dell’elicottero su cui si sta volando: «Riflesso al fuoco da terra: stringi le chiappe e sollevati di qualche centimetro dal sedile. Strizza bestiale, bastardo; usavi dei muscoli che non sapevi neanche di avere», ci racconta il colore della notte durante la guerra, ma soprattutto ci racconta dei volti e delle facce dei ragazzi impegnati nel conflitto più inutile e frustrante della nostra storia, ci parla della stanchezza, della pazzia, dei fantasmi. Ci svela com’è camminare fisicamente di fianco alla morte, continuamente, tutti i giorni.
Aveva una di quelle facce, ho visto quella faccia almeno mille volte in un centinaio di basi e di campi, tutta la gioventù succhiata via dagli occhi, il colore prosciugato dalla pelle, le labbra bianche e fredde, sapevi che non avrebbe aspettato che nessuna di quelle cose ritornasse [...] Queste erano le facce di giovani contro i quali parevano essersi rivoltate le loro intere vite, erano lontani neanche un metro ma ti guardavano da una distanza che sapevi non avresti mai cancellato veramente.
C’è un momento bellissimo, nel libro: Herr riesce a tornare per qualche giorno a Saigon (lui è un corrispondente: può andare e venire come gli pare), è uno dei suoi primi “ritorni” dal fronte e in una sola immagine che lo scrittore ci elargisce c’è tutto il cambiamento che la guerra è riuscita ad inoculargli. Semplicemente davanti a degli scarafaggi orribili che gli camminano a un passo dal cuscino e nel piatto della doccia, lui non fa una piega. Quello che fino a pochi mesi prima lo avrebbe terrorizzato, adesso non gli fa più né caldo né freddo. È un’immagine semplicissima, banale, anti-poetica, eppure fulminante: «Cosa potevano farmi?», riflette l'autore, nella sua camera finalmente lontano dagli spari e da tutto quel sangue.
C’è un altro passaggio memorabile del libro. Herr sta raccontando di quanto la guerra riesca ad annullare tutto il resto, a tirare via qualsiasi pensiero alternativo: ci sta descrivendo una serie di zombie, più che di soldati, ormai dediti al conflitto in tutto e per tutto, completamente nolenti, ma senza altra possibilità che andare avanti. La disperazione di tutto ciò, Herr la rivela spiegando che gli addetti al registro sepolture, spesso e volentieri, trovavano negli zaini dei marine morti lettere provenienti da casa che erano state consegnate giorni e giorni prima e che nemmeno erano state aperte.
C’è qualcosa di “sublime”, non so se lo percepite anche voi. Io non ho mai attraversato territori simili, leggendo. Ci sono altre due cose che fa Herr, e poi non dirò più niente, perché altro non serve: riferisce della stupidità e del fascino della guerra. Riesce a fare queste due cose tanto diverse nello stesso momento e con la stessa efficacia, risultando due volte credibile. Usa tutta una schiera di personaggi meravigliosi e tragici, che mi sono rimasti a tal punto dentro, che terminata la lettura ho dovuto perdere un’ora su Internet per cercarne i volti, adoperando Google e Youtube: mi è sembrato di impazzire quando mi sono reso conto di avere avuto a che fare, per tutta la durata di quelle 290 pagine, con persone reali, che sono esistite veramente, la maggior parte delle quali è ancora viva, soprattutto reporter, fotografi, ma anche soldati semplici, berretti verdi e generali. Qualcuno degli scatti fotografici di cui parla Herr nel libro li ho ritrovati su Internet e, non lo so, non riesco bene a spiegarlo, ma è stato come fermarsi in macchina, in prossimità delle strisce pedonali, e vedere attraversare il capitano Achab. Come stendere l’asciugamano in spiaggia e vedere a riva Santiago col suo gigantesco marlin tenuto ancor all'amo sulla spalla. Dici no, non può essere vero: non può essere successo tutto sul serio.
La stupidità della guerra.
È un tema carissimo a “Dispacci”. C’è un passaggio che fa addirittura sorridere (ce ne sono molti che fanno proprio ridere) in cui Herr racconta di questo colonnello «il quale era convinto che ogni uomo sotto il suo comando avesse bisogno di fare l’esperienza del combattimento, così ordinò a tutti i cuochi e i furieri e i soldati della sussistenza di prendere gli M-16 e uscire in perlustrazione notturna, e una volta tutti i suoi cuochi furono sterminati in un’imboscata».
Sembra un anticlimax di Woody Allen e invece è successo veramente mentre i nostri genitori si mettevano i pantaloni a zampa d’elefante per andare all’Università.
Il fascino della guerra.
Sentite come ne parla Herr, che racconta l’esperienza di uno dei suoi amici più cari, laggiù in Vietnam, Tim Page, anche lui reporter di guerra, il quale un bel giorno, ormai tutti ritornati alle loro vite borghesi, riceve la proposta da un editore inglese di scrivere un libro intitolato “Basta con la guerra”, il cui scopo sarebbe stato di “togliere fascino alle guerra:
Page non riusciva a mandarla giù. «Togliere fascino alla guerra! Ti rendi conto, porca miseria, e come diavolo si fa, eh? Va' un po’ a togliere fascino a uno Huey, va’ a togliere fascino a uno Sheridan... Tu sei capace di togliere fascino a un Cobra? A un buono spinello a China Beach? È come togliere fascino a un M-79, togliere fascino a Flynn». Indicò una foto fatta da lui, Flynn che rideva con un’espressione da pazzo, di trionfo («Stiamo vincendo», diceva). «Non c’è niente che non va in quel ragazzo, non è vero? Permetteresti a tua figlia di sposare quell’uomo? Ooooh, la guerra ti fa bene, a questo non puoi togliere fascino. È come cercare di togliere fascino ai Rolling Stones». Non riusciva veramente a trovare le parole e agitava le mani in su e in giù per sottolineare l’assoluta follia della cosa.
«Cioè, tu lo sai, non si può fare proprio!». Entrambi ci stringemmo nelle spalle e scoppiammo a ridere, poi per un istante Page apparve molto pensoso. «Solo l’idea è delirante», disse. «Ooooh, che ridere! Togliere il maledetto fascino alla maledetta guerra.»
Leggete “Dispacci” di Michael Herr.
Vi appassionerete non alla guerra, ma al suo esatto opposto, qualunque esso sia.
Forse perché, per dirla con le sue stesse parole, «dopo tutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone».
1 commento:
Non ha scritto alcunché, ma Carlos Mavroleon è un altro reporter, un altro Uomo, alla cui storia ti consiglio di dedicare qualche minuto.
Posta un commento