Parlare dell’amicizia è portarsi dietro un carico di retorica inevitabile. Parlare dell’amicizia è uno di quegli esercizi sempre identici che si facevano a scuola, durante l’ora di educazione fisica: bene che andava si giocava a una specie di pallavolo che dopo venticinque minuti diventava una specie di calcetto, tra gli strepiti di protesta delle ragazze, sennò si ripassava la materia dell’ora successiva. Nessuno di noi è mai riuscito a farla più complicata di così. Un tizio, un filosofo americano, una volta ha scritto che l’amicizia è il tacito accordo tra due nemici di voler collaborare per un bottino comune. In tal senso, è stata un’estate che non è rimasta a guardare, questa, il che, al di là del potere suadente delle allitterazioni, le quali ancora hanno il potere di farmi sorridere come il ricordo di una serata riuscita, è un gigantesco guadagno rispetto agli ultimi tre anni trascorsi. Udite, udite: ‘sta volta sono stato bene.
Se non mi sbaglio (ero vagamente ubriaco di vino prodotto in casa, un vino rosso poderoso), davanti a me si stagliavano, eterni, incorruttibili, fermi come il Colosseo, i miei due amici più Antichi. Che c’è di nuovo in questo? Niente. Gli amici non fanno altro che stare insieme e stare bene, ciascuno a modo proprio, e io sono malato di moltissime cose ma non di solipsismo, e dunque so che quello che sembra unico e incredibile a me, è unico ed incredibile, all'incirca, per il 99% di tutte quante le altre persone. Va bene, ecco cosa stava succedendo, né più né meno: i miei due amici più Antichi stavano di fronte a me, a cena, nell’ambito di una vacanza che non ci riuscivamo a concedere, insieme, da sette anni, e mentre li guardavo parlare mi sono messo a pensare proprio a questo, cioè che quella cosa lì era di una scontatezza sconcertante e, dunque, confortevolissima. Mi sono seduto su un divano, che era rosso, e li ho guardati per un momento, prima di volgere gli occhi altrove, dicendo a me stesso che anche noi, in quanto esseri viventi, stavamo contribuendo a quel miracolo quotidiano che è la normalità. Ecco qua i due miei amici più Antichi che parlano tra di loro, senza nemmeno una sovrastruttura che li modifichi da quello che sono veramente. Non ho la pretesa di pensare che i miei amici, sebbene i più Antichi, siano davanti ai miei occhi quello che sono quando si ritrovano nel letto da soli, nel cuore della notte, un istante prima di addormentarsi: certi gradi di sincerità non sono fatti per essere condivisi e chi lo fa è un cretino o un falsario. Eppure, secondo me, nel caso di cui sto rendendo conto, ci sono andati vicini. Parlavano, tutto qui, e a me, da lontano - “lontano” si fa per dire, visto che stavo su un divano a due metri di distanza, epppure lontanissimo lo stesso, perché momentaneamente ero uscito dalla conversazione (ogni tanto mi piace farlo) - a me, da quella posizione, quasi quasi è scappato un colpo di tosse, cazzarola, uno di quelli che usi per coprire il rumore della deglutizione, al cinema, quando non vuoi dare a vedere al vicino di posto che quella scena commovente ha colpito anche te: la banalità del tutto accresceva il senso di meraviglia, anziché sotterrarla. L’amicizia, il potere dell’amicizia, sebbene retorico, è un’attività opposta all’archeologia. Non servono grandi scheletri millenari per gridare al miracolo, questo voglio dire: serve tutto il contrario.
Parlavano, non ricordo di cosa, ma parlavano, e a me questo, espressamente questo, è parso un miracolo, dopo il grembiule azzurro delle elementari e Dante e Paolo e Francesca e il sussidiario e le prime ricreazioni e tutto quel conoscersi tra i banchi e lavagne e gessi e guerre di cancellini e dispetti e litigi e penne Staedler e i compiti in classe e il greco e il latino e Camillo Benso Conte di Cavour e loro due che andavano benissimo e io una merda e le ragazze e la pubertà e la patente e il primo Long Island e la maturità e la seconda guerra mondiale e la rivoluzione francese e le lambda e il pi greco e le lauree e l’America e i distacchi e gli aerei che sono partiti e le macchine che se ne sono andate e i ritorni e i disastri e le morti e gli abbandoni e le lacrime e i perché e gli addii e i fallimenti e le strade sbagliate e gli errori e le incomprensioni e i concerti e gli scudetti e le coppe dei campioni e i pompini e le tette di quella e gli stipendi e i giri offerti e i finestrini e le arie condizionate e i giornali e le crisi economiche e gli Ibrahimovic e i Mondiali e le droghe e quelli che non ce l’hanno fatta, compreso Roberto Baggio, e dopo tutte queste cose, che la metà poteva anche bastare a fare di noi degli sconosciuti, dopo tutte queste cose come puoi adoperare un termine diverso da “miracolo”?
Non fa niente se altri dieci milioni l’hanno compiuto uguale: in quel preciso Momento sei unico, stai moltiplicando i pani e i pesci, anzi meglio, e i tuoi due amici più Antichi ce li hai solo tu e quella è una scacchiera, davvero dico, quell’istante è il movimento pensatissimo sopra una scacchiera, frutto e conseguenza di tutti gli altri movimenti fatti fino a lì. Tutte le parole dette, quelle non dette, ogni cosa ha contribuito a produrre quel Momento Perfetto, cioè i miei amici più Antichi in vacanza con me a parlare fra di loro: Dante è morto, Leopardi è morto, e noi no. È vero, lo facciamo tutti, ogni giorno, nessuno è speciale, ma allora perché non ne parliamo? Gesù, si passa il tempo a discutere della piaga dell’abbandono di questi cazzo di inutili cani di merda e mai nessuno che abbia la voglia o il tempo di raccontare perché e per come la coincidenza di due amici Antichi che parlano tra di loro sia bellissima.
Abbiate il coraggio di esaltare la meraviglia della normalità.
A fare il contrario sono tutti bravi.
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